Un giovane uomo si muove solitario in una scenografia in bianco e nero, nudo fondale di copertoni e catene, novello Charlie Chaplin nostrano incastrato tra gli ingranaggi di gomma e ferro della fu gloriosa Fabbrica Italiana Automobili Torino. Si tratta di Giuseppe Dozzo, sindacalista Fiom, ex partigiano, di lì a poco ex operaio, nella fabbrica degli anni Cinquanta che mal sopporta le alzate di testa degli addetti alla catena di montaggio, e li elimina lentamente e inesorabilmente, isolandoli. È la nuova, coraggiosa produzione del Teatro Consorziale di Budrio, Il diario di Giuseppe Dozzo. Gli anni duri della Fiat, al debutto in prima nazionale venerdì 16 gennaio (ore 21, Teatro Consorziale di Budrio, info 051 692 8244). Uno spettacolo diretto e interpretato da Simone Toni, attore romagnolo formatosi al Piccolo di Milano con Luca Ronconi e Gabriele Lavia, coi quali ha lavorato poi in numerosi spettacoli teatrali costruendosi a dispetto della giovane età un solido curriculum di interprete e regista.
Lo spettacolo è tratto dal diario dello stesso Dozzo, operaio della Fiat, licenziato a seguito della sua adesione alla Fiom: sono gli anni dal 1956 al 1958, Dozzo ha trent’anni ed è operaio da 13. Il diario annota scrupolosamente accadimenti, fatti, nomi a partire dal novembre del 1956, il giorno in cui al giovane viene comunicato lo spostamento alla famigerata Officina 24, ricettacolo di tutti gli indesiderati. Un quotidiano stillicidio di boicottaggi e controlli da parte di sorveglianti e operai spia per cogliere in fallo i lavoratori scomodi e trovarne pretesti al licenziamento: strategie di mobbing ante litteram, da Dozzo registrate puntualmente, tela di ragno che giorno dopo giorno si stringe attorno all’uomo.
“Un testo difficile da rappresentare per la sua estrema specificità: è rimasto nel cassetto per più di un anno” racconta Simone Toni, che assieme allo scrittore cesenate Marco Benazzi ha raccolto la sfida di portare in scena la drammaticità di un vissuto reale raccontata da parole lontane da ogni pretesa letteraria. Poi la cronaca politica, tra Jobs Act, diritti del lavoro sempre più sotto attacco e crisi della rappresentanza sindacale, hanno convinto l’attore e regista a lavorare su quelle parole apparentemente neutrali, cronaca quotidiana e spoglia di una routine che si incrina, lasciando solo chi nel proprio lavoro fondava un senso di identità e appartenenza. “Giuseppe Dozzo festeggia i suoi trent’anni nelle pagine del diario, e ha già alle spalle un vissuto incredibile: in fabbrica da quando ne ha 17, ha vissuto guerra, fame e miseria, ha fatto la Resistenza e liberato un paese. La distanza coi trentenni di oggi è abissale: una pasta d’uomo che non esiste più, uomini difficili da piegare, poco propensi a farsi mettere i piedi in testa”.
Simbolo di una sinistra di cui rimane solo un pallido ricordo? “Credo che lo spettacolo vada oltre questo: mi interessava piuttosto dipingere l’estrema solitudine dell’individuo e la dignità della persona in rapporto al proprio lavoro” dice Simone. “Certo che inevitabilmente diventa uno spettacolo politico: Dozzo ha consapevolezza, pur nella sua estrema semplicità, dei propri diritti. Intuisce che sta succedendo qualcosa, annota e appunta i nomi dei licenziati, fa due più due, non gli ci vuol molto a rendersi conto che sono tutti iscritti Fiom. Da trentenne che si trova a vivere questo passaggio storico ed economico” continua Toni “mi interessava di più mettere in luce quel senso di ingiustizia e sopruso che accomuna un trentenne degli anni Cinquanta ad un coetaneo di oggi. La sensazione che emerge è quella dell’inutilità del proprio ruolo sociale, di un lavoro che in fondo non serve a nessuno: nervo scoperto per chi sceglie di lavorare nel mondo dello spettacolo e della cultura”.
Si è perduta, dice Toni, la dignità del lavoro, dal più semplice al più strutturato. “Credo che non ci si renda conto che la domanda di molti giovani sia semplicemente quella di poter lavorare ed avere un compenso che consenta semplicemente di vivere con serenità. I tempi sono propizi per riproporre un sistema di valori che dia spazio ad altri tipi di ricchezza” conclude Toni. “L’effetto che vorrei ottenere è quello stesso grido silenzioso che allora, anche grazie a Dozzo e ai suoi compagni, portò alla maturazione di una coscienza collettiva e ai grandi scioperi del ‘62 e del ’68. Ecco, spero che quell’uomo solo in scena scuota un pochino la mia generazione, senza violenze e strepiti populisti”. Anni Cinquanta abissalmente distanti nel tempo o più vicini di quello che si pensi? Allo spettatore il compito di riflettere.
Per tutte le info sullo spettacolo si rimanda al sito www.teatrodibudrio.com.