In quasi un mese di repliche (dal 4 dicembre al 1 gennaio al Teatro Argentina) il Natale in casa Cupiello di Antonio Latella ha avuto il merito più evidente di imporsi all’attenzione del pubblico e della critica come inevitabile oggetto di discussione. Evento della stagione culturale romana, la messinscena ha letteralmente spaccato a metà l’opinione degli spettatori, divisi tra entusiasti e indignati. Il fronte degli oppositori annovera gli inossidabili conservatori, che proprio non ce la fanno a sopportare quella che hanno interpretato come una violazione del mito di Eduardo. Che poi il genio del teatro italiano del secondo Novecento sia messo in discussione proprio con quello che ormai è considerato il suo capolavoro e che questo avvenga addirittura a Natale, nel salotto buono della scena romana, non poteva andar giù a molti spettatori, che infatti hanno abbandonato l’Argentina a metà della rappresentazione. Meno viscerale ma altrettanto forte la reazione di alcuni critici, come ha registrato Simone Nebbia, che nella sua Lettera a uno spettatore ha messo in fila le ragioni di una risposta tanto emotiva.
Di pari intensità è però l’entusiasmo di chi nello spettacolo di Latella ha visto un modo intelligente di accostarsi al repertorio, scostandosi dalla devozione passiva nei confronti dei classici. Risposta che è arrivata da un pubblico giovane, che con il passaparola e la velocità dei tweet si è messo in fila al botteghino, per riempire il teatro fino all’ultima balconata.
Si è parlato del coraggio di “dissacrare” Eduardo, che è stato smontato e rivoltato per essere “demistificato” (Andrea Porcheddu in un brillante articolo su glistatigenerali.com). Pur condividendo l’analisi precisa e puntuale, non sono convinta che si sia trattato di una dissacrazione. Perché nell’operazione di Latella io ho visto piuttosto una chiara evocazione. In un’intervista rilasciata all’Adn Kronos poco prima del debutto romano, il regista parlava della condizione di orfanità da Eduardo, da accettare necessariamente per poterne accogliere l’eredità. Solo dichiarandolo morto e non sentendosene quindi più figli (ma orfani, appunto), si può “capire cosa si sta ricevendo” e dargli nuova vita.
Latella si libera dalla sottomissione a modelli interpretativi ricalcati sulla versione televisiva curata dallo stesso Eduardo e dalla tradizione delle regie del repertorio defilippiano. Questo Natale in casa Cupiello torna a leggere il testo della Cantata dei giorni pari e lo rispetta. I tre grandi quadri in cui è diviso lo spettacolo corrispondono ai tre atti della commedia, definendone la diversa natura, dovuta alle diverse fasi di composizione (il testo nasce come atto unico, coincidente con l’attuale secondo atto). A differenziare i momenti è soprattutto l’azione: assente nel primo in cui gli attori letteralmente “leggono” il testo, esasperata in quello centrale e fissata in pochi gesti di qualità pittorica nel terzo.
A chi ha davanti agli occhi le scene riprese dalle telecamere della Rai nel 1977 non può non sembrare un’operazione straniante. Effetto cui concorre la riproduzione, come un ritornello ossessivo, della voce di Eduardo, mentre dice di doversi mettere “a fa’ ‘o Presebbio n’ata vota”. Qui si misura, secondo me, la vicinanza e il rispetto nei confronti dell’autore, che è presente in scena, quasi a benedire questa traduzione in immagini e azione. Latella si stacca da una tradizione fin troppo vincolante, per tornare alla parola diretta del drammaturgo, che recupera fino agli accenti. Luca scrive su un foglio invisibile, sottolineando l’intoccabilità del testo (che però verrà plasmato in almeno un paio di occasioni). Allo stesso modo gli attori (tutti bravi, ma spiccano Monica Piseddu – Concetta, Francesco Manetti – Luca e Lino Musella – Tommasino) non imitano né alludono ai loro illustri predecessori.
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