Oil pollution in the Niger Delta is one of the biggest corporate scandals of our time. Shell needs to provide proper compensation, clear up the mess and make the pipelines safer, rather than fighting a slick PR campaign to dodge all responsibility
Audrey Gaughran, Amnesty International
It’s everywhere. The wind blows the oil on our vegetable crops, our food tastes of oil, our children are sick and we get skin rashes. Life here has stopped
Barilido, un pescatore Ogoni che non pesca più.
Siamo nella terra di Ken Saro Wiwa, il poeta e l’attivista antipetrolifero ucciso nel 1995. L’Ogoniland si estende per circa 400 chilometri di costa, ricca di mangrovie e di corsi d’acqua. E’ anche una delle zone piu povere della Nigeria. Il salario minimo dei pescatori è qui di circa 60 sterline l’anno e due mila in un colpo solo sono una manna dal cielo. La Shell verserà 55 milioni di sterline in totale, di cui 35 andranno a singoli individui e 20 milioni alla comunità. Il denaro sarà certo utile nell’immediato ai residenti della zona, che vivono in condizioni di povertà estrema, ma non è che una goccia nel mare se si guarda la devastazione ambientale che la Shell ha causato nel corso di decenni ad una comunità che vive di pesca, di acqua.
E non la si deve vedere come un gesto di magnanimità della Shell: solo dopo cinque, sei anni di accuse e di azioni legali, speronate dall’avvocato inglese Martyn Day, si è giunti a questo epilogo. Inizialmente la Shell ha cercato di dare la colpa degli sversamenti ai sabotaggi, pur sapendo, come da recenti documenti pubblicati da Amnesty International, che i loro tubi erano corrosi e che mancavano di manutenzione. Hanno anche sottostimato il quantitativo di petrolio sversato – 4,000 barili, mentre secondo Amnesty International erano almeno 240,000. Volevano cavarsela in silenzio e con sole quattro mila sterline – in totale! Alla fine la Shell ha accettato di pagare 55 milioni solo perché non voleva affrontare un processo in un tribunale londinese che li avrebbe sicuramente messi sotto i riflettori e che avrebbe esposto al mondo intero i loro misfatti.
Nelle comunità Ogoni la terra puzza ancora di petrolio, l’acqua non si può bere, i granchi sono oliosi, le mangrovie annerite, spettrali e morenti, ma il caso Bado è un piccolo inizio. Era la prima volta che la Shell ha quanto meno avuto il timore di essere giudicata in un tribunale londinese – e con gli standard londinesi – invece che in un tribunale nigeriano.
L’avvocato Martyn Day dice che Bodo aprirà la porta, che ci sono altri casi simili pronti per essere indagati e che lui continuerà la sua opera. Io spero che la pressione internazionale continui, che chi combina disastri senta questo episodio e gli altri a venire come dei deterrenti, e che tutte le altre comunità alle prese con l’inquinamento petrolifero pluridecennale – in Nigeria, in Perù, in Ecuador, e anche nella nostra Basilicata – possano avere il loro onesto “day in court”.
Secondo l’ONU per ripulire tutto l’Ogoniland ci vogliono almeno 1 miliardo di dollari.