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Ue, il Patto di stabilità diventa più flessibile. Ma niente deroghe sul 3%

Le linee guida approvate dalla Commissione concedono una parte dei margini di manovra auspicati da Matteo Renzi. E spianano la strada per l'approvazione, a marzo, della legge di Stabilità di Roma. Ma il premier non incassa lo scorporo totale degli investimenti dal deficit. Più tempo a i Paesi che fanno le riforme, ma solo se dimostrano che hanno effetti positivi sul bilancio

Stavolta i margini di flessibilità nell’applicazione del patto di Stabilità ci sono davvero. Non sono ampi quanto auspicato da Matteo Renzi all’inizio del semestre Ue, lo scorso luglio, ma sono nero su bianco nelle “linee guida per incoraggiare riforme strutturali e investimenti” approvate dalla Commissione europea martedì, giorno in cui il semestre italiano si è ufficialmente concluso. Bruxelles ha infatti deciso che, pur nel rispetto delle regole esistenti e del limite del 3% per il rapporto debito/Pil, i Paesi membri avranno più spazio di manovra se si impegneranno in riforme strutturali, se faranno investimenti e in caso di congiuntura negativa. Ai Paesi in crisi economica sarà concesso più tempo per rispettare gli obiettivi di bilancio fissati dal Fiscal compact. Cioè il trattato che oggi impone a chi, come l’Italia, ha un debito superiore al 60% del Pil di ridurre il deficit strutturale dello 0,5% l’anno. D’ora in poi, invece, agli Stati che registrano una crescita reale negativa o una differenza significativa tra la crescita “potenziale” e quella effettivamente realizzata (il cosiddetto “output gap“) sarà richiesto uno sforzo inferiore. Chi ha un debito basso ed è in recessione potrà addirittura non fare alcun aggiustamento.

Applicando la tabella diffusa dalla Commissione ai dati italiani, in particolare, si deriva che la correzione richiesta si limiterà allo 0,25% del Pil. Vale a dire che la legge di Stabilità, su cui come è noto il verdetto finale arriverà a marzo, dovrebbe essere licenziata senza ulteriori rilievi, visto che prevede un aggiustamento dello 0,3% del Pil. Non per niente è proprio su questo che si è concentrato il braccio di ferro tra Bruxelles e il governo di Roma – in prima fila il ministero dell’Economia guidato da Pier Carlo Padoan. Che non incassa però una vittoria su tutta la linea: resta aperta infatti la discussione sulla metodologia di calcolo dell’output gap. Da mesi Padoan va ripetendo che i metodi utilizzati dalla Commissione sono inadeguati e vanno aggiornati, ma si è scontrato con una chiusura totale. In ogni caso, sfruttando insieme questa nuova modulazione delle norme di bilancio e la “deviazione” concessa a chi fa riforme strutturali, l’Italia con tutta probabilità otterrà il via libera.

Per l’Italia l’esclusione dal deficit del cofinanziamento ai programmi Ue vale 3,5 miliardi, circa lo 0,2% del Pil

Il secondo pilastro delle nuove guida riguarda infatti proprio le riforme: i Paesi membri che le mettono in atto potranno correggere di meno l’andamento l’andamento dei conti pubblici a tre condizioni: deve trattarsi di interventi “rilevanti”, “con effetti positivi di lungo termine dimostrabili sul bilancio, incluso l’aumento della crescita potenziale”, e devono essere “effettivamente implementati”. La deviazione non potrà comunque superare lo 0,5% del Pil, e gli obiettivi di medio termine andranno in ogni caso raggiunti entro quattro anni. Gli Stati membri potranno anche chiedere alla Commissione di approvare ex ante il piano di riforme dichiarando che è ammissibile per l’esenzione: occorrerà presentare “un piano preciso con un cronoprogramma credibile per la loro attuazione”.

Apertura parziale, infine, anche riguardo alla flessibilità concessa a chi fa investimenti. Come era chiaro fin dall’inizio, infatti, i contributi nazionali al nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi) previsto dal piano Juncker non saranno conteggiati nel calcolo del deficit ai fini dell’aggiustamento strutturale. E, pur di favorire l’afflusso di quanto mai necessari soldi freschi (il presidente della Commissione come è noto ne ha trovati solo 21 contro i 300 annunciati), si consente addirittura ai Paesi che contribuiranno di sforare – a patto che sia “di poco” e “temporaneamente” – il tetto del 3 per cento. Al contrario, però, Renzi non riesce a portare a casa la “golden rule“, cioè la possibilità di escludere del tutto ogni tipo di investimento dal deficit, perché “non è prevista dal Patto”. La quota nazionale dei progetti cofinanziati dalla Ue darà diritto all’applicazione di una specie di clausola di salvaguardia, ma solo nel senso di una “temporanea” (non oltre i quattro anni) deviazione del percorso di aggiustamento e, stavolta, nei limiti del 3 per cento. Per l’Italia, il cofinanziamento ai programmi 2007-2013 e 2014-2020 ammonta a poco più di 3,5 miliardi: di conseguenza, la decisione dell’esecutivo Ue potrebbe assicurare alla Penisola “respiro” per una cifra pari a circa lo 0,2% del Pil.

Una nota del Tesoro, diffusa in serata. definisce il documento “un risultato di grande rilievo” e spiega che “l governo italiano giudica favorevolmente l’importanza attribuita alla presentazione da parte degli Stati membri di un preciso e dettagliato timing di attuazione delle riforme strutturali”.