#nonhopauradibokoharam. Non credo che farò girare questo tweet, nonostante l’orrore che questa organizzazione mi fa, con le bambine fatte esplodere nei mercati, le ragazze rapite e schiavizzate (vi ricordate #givebackourgirls, con Michelle Obama in prima fila?) la gente sgozzata e rapita, ma sarebbe poco onesto da parte mia diffonderlo.
A me Boko Haram fa paura. La paura è un sentimento umano, anche animale, aver paura non significa essere pavidi, significa essere coscienti di fronte a un pericolo, dopodiché decidere che reazione avere. Ritirarsi, fuggire o battersi. Tutte le volte che mi è capitato di essere in situazioni del genere non sono scappato, da giovane passavo per uno coraggioso, eppure anche prima degli scontri di piazza un po’ di paura ce l’avevo, ma non ci si pensava.
Tutti dovremmo averne un po’ e soprattutto dovrebbero averne i nostri governanti, soddisfatti dall‘Oceano Pacifico di Parigi, impegnati a twittare e a fare dei selfie, con la matita al posto del koala, senza idee e con poca voglia di rischiare, di cambiare.
Boko Haram, mi fa paura, ma parteciperò alle manifestazioni come tutti, milioni, contro il terrorismo, spaventati ma non piegati. Siamo tutti Charlie, juifs, francesi, ma soprattutto abbiamo una domanda: che cosa possiamo fare? Che cosa farete? Nel frattempo manderò avanti il nostro nuovo impegno a Jaipur con Shahadat, il ragazzo musulmano di origini afghane che ha convinto noi di Vivere con lentezza ad aprire una nuova scuola, in una madrasa, all’interno di una baraccopoli, così ragazzi e ragazze potranno studiare, imparare, forse capire, non leggere la realtà solo attraverso il Corano.
Non è molto, non è come l’impegno di Greg Mortenson in Pakistan, che apre scuole per ragazze nelle zone più difficili del paese, ma mi consente di bere tre tazze di te con amici che vogliono vivere in pace, la pace.
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