Quando l’emergenza diventa il principio alla base dell’azione politica, gli stessi concetti di democrazia e libertà finiscono per ridursi a variabili dipendenti dalla più generica idea di “sicurezza”, termine quest’ultimo privo di contorni, e per questa ragione aperto al più ampio e spregiudicato utilizzo a fini politici. Prendiamo le richieste francese e spagnola di sospendere gli accordi di Schengen per incrementare la sicurezza negli spostamenti interni all’Unione Europea: a prescindere dalla dubbia correlazione tra la libera circolazione Ue ed il rischio di nuovi attentati (quello a Charlie Hebdo, come sappiamo, è maturato in un contesto interno) la proposta è dinamite per uno dei pilastri fondamentali dell’integrazione europea: finiremmo, infatti, per ritrovarci “uniti da 28 barriere”, con merci e capitali che corrono mentre la gente resta in fila per mostrare il passaporto. Sarebbe come mettere indietro le lancette di un ventennio, riproponendo un modello di stato ormai superato dalla storia mentre gli europei, tutti noi, abbiamo costruito questa unione nonostante la politica e la ricerca di facile consenso da parte dei politici.

L’Europa di oggi non può essere solo una finzione giuridica che consente alle aziende di delocalizzare le proprie sedi laddove dove la manodopera costa poco e la tassazione per le imprese è favorevole: non può essere insomma un’Europa solo a misura di Marchionne o di Ryanair mentre ai cittadini del Continente si vorrebbero imporre limiti, quote e restrizioni. D’altronde Schengen è dalla sua istituzione un regolamento molto discusso e la Francia non ne ha mai accettato l’implementazione con grande entusiasmo: nel ’95, scriveva il New York Times, il ministro dell’interno d’Oltralpe nell’annunciare un rinvio sine die dell’accordo di libera circolazione, spiegava “Quando parliamo di Europa delle libertà, dobbiamo parlare anche di Europa della sicurezza”. Allora la Francia era convalescente da un sanguinoso attentato alla Metro di Parigi, che costò la vita ad 8 persone. Non si tratta però di un caso isolato: negli ultimi 20 anni, gli accordi di Schengen, sono diventati un po’ il simbolo dell’integrazione europea e per questa ragione, il bersaglio preferito della platea euroscettica: dalle continue richieste spagnole ai piani (rimasti poi tali) del penultimo governo danese in carica, riappropriarsi della “sovranità”, dicono, passerebbe per la necessaria reintroduzione dei controlli di frontiera. Le motivazioni sono, nel migliore dei casi, contingenze utilizzate come pretesto per abbandonare l’accordo di libera circolazione: d’altronde la possibilità di una reintroduzione temporanea dei controlli per ragioni di sicurezza è già consentita ma ad alcuni Paesi, tra tutti la Francia, la richiesta di riscrivere le regole in senso restrittivo è stata negli anni tanto asfissiante e ripetuta da far ragionevolmente credere che in molti stiano lavorando alla ricerca di una maggioranza a Bruxelles che consenta di superare l’attuale schema continentale senza frontiere interne. Terrorismo, immigrazione, traffico d’armi e addirittura i coffeeshop olandesi: ad ogni emergenza i francesi ripartono alla carica con la necessità di cestinare Schengen; con l’ondata di emozione e solidarietà mondiale per la tragedia della scorsa settimana, non è detto l’operazione a questo giro non riesca.

Eppure il problema risiede nella scarsa collaborazione transnazionale tra gli Stati membri, nella riluttanza a progetti comuni solidi e duraturi tra intelligence e forze dell’ordine ed in una strana idea di Europa, dove una conquista di civiltà come la libera circolazione finisce per diventare un fardello di cui sbarazzarsi. A questo punto, difendere i principi del trattato di Schengen, non è più solo un affare interno dei cittadini francesi ma un dovere morale di tutti gli europei.

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