Il maxi-processo sull’amianto killer nel petrolchimico di Ravenna – alla sesta udienza nell’aula d’assise del tribunale – si arricchisce per la prima volta della voce di un esperto secondo cui l’amianto era una presenza costante e quotidiana nel polo chimico che si estende sulla riva sinistra del canale Candiano di Ravenna, a circa tre chilometri dalla darsena. In poco più di 20 anni sono stati una trentina i casi di mesotelioma tra i lavoratori del petrolchimico: più di un caso all’anno. Per i non esposti all’amianto, l’incidenza naturale è di un caso su un milione. Un dato, quello fornito dal responsabile della Medicina del lavoro dell’Ausl di Ravenna, Giampiero Mancini, che delinea le conseguenze dell’esposizione all’amianto dei lavoratori del bacino produttivo nato nel 1957 sotto la gestione di Anic spa e Società chimica Ravenna spa. Al contempo, però, davanti al giudice Milena Zavatti e al sostituto procuratore Monica Gargiulo, il coordinatore dell’Ausl evidenzia come, secondo gli studi effettuati tra il 1995 e il 1997 da Contarp e dalla stessa Ausl di Romagna (all’epoca Usl di Ravenna), solo i lavoratori in servizio alla centrale termoelettrica di via Baiona risulterebbero essere stati esposti all’amianto, mentre nelle altre isole produttive la presenza del minerale cancerogeno era dalle 10 alle 50 volte inferiore rispetto alla soglia di 100 fibre/litro che definisce un lavoratore “esposto al rischio di amianto”.
Era l’inizio del 2009 quando la procura di Ravenna si rivolse all’Inail per accertare i rischio nel petrolchimico e, secondo quanto riportato da Mancini, già da un esame preliminare avvenuto nello stesso anno, tra i lavoratori risultavano patologie correlabili all’amianto. I primi esposti presentati in Procura per malattie professionali legate all’amianto, invece, risalivano già al 2004. Oggi, i 22 indagati, rappresentanti delle varie società che dal 1957 al 1985 si sono succedute alla guida del petrolchimico, sono tutti accusati a vario titolo di omicidio colposo, lesioni colpose e disastro colposo, in quanto l’amianto è stato immesso in ambienti di lavoro e di vita privata su vasta scala e per più decenni, mettendo in pericolo di vita i lavoratori e i relativi familiari (tra le testimonianze spicca quella di una signora ammalatasi per avere lavato i vestiti del marito). Secondo il responsabile della Medicina del lavoro, le stime evidenziano un’esposizione all’amianto diversa in relazione alla mansione svolta dai lavoratori: nel dettaglio, 84 minuti al giorno per i meccanici saldatori; 6 minuti al giorno per gli elettricisti dell’officina meccanica; 28 minuti al giorno per gli strumentisti; 10-20 minuti quotidiani per i chimici e 30 minuti sei volte l’anno per i lubrificatori.
I reati contestati riguardano oltre cinquanta anni di attività del bacino produttivo, ma le prime valutazioni sulla presenza di amianto risalgono al 1995, epoca in cui era già stata emanata la legge 257 del 27 marzo 1992, che imponeva misure di tutela e la bonifica dei luoghi di lavoro contaminati. Uno dei problemi è anche quello di stabilire quando un lavoratore si sia ammalato: molte sentenze sostengono che il criterio sia una esposizione prolungata. Uno degli avvocati che rappresentano i lavoratori, Giovanni Scudellari, fa notare come, all’interno delle valutazioni Contarp, non sia riportata una metodologia precisa, non siano state eseguite interviste strutturate ai lavoratori e i campionamenti siano isolati e rappresentativi di una sola giornata. Da parte sua, Mancini lascia trasparire nella deposizione che le misurazioni, se effettuate negli anni precedenti, sarebbero state “probabilmente peggiori”, sottolineando inoltre l’importanza delle situazioni cosiddette “passive”, in cui gli operai, anche non addetti alle manutenzioni, lavoravano a stretto contatto con l’amianto.
«A minimizzare sono bravi», dice fuori dall’aula Sauro Staffa, per tutti ‘Carlo’, lavoratore dell’Anic dal 1959 al 1990, dando voce agli umori degli altri suoi colleghi. Alla soglia degli ottant’anni, lui e molti altri assistono a tutte le udienze con il cuore che ha perso i battiti dei colleghi morti nel corso degli anni. «Cosa sono sei minuti?» si chiede Carlo, riferendosi alle stime riportate in aula circa la frequenza di esposizione all’amianto. «La manutenzione – racconta – richiede tempo, a volte ho lavorato anche per 33 ore di fila, e qui parlano di sei minuti. Cambiare una valvola richiede tempo, certe cose loro non le sanno. In trentuno anni di lavoro, nessuno mi ha mai detto che l’amianto era un killer». Carlo entrò all’Anic in qualità di manutentore fino poi a diventare collaudatore. Impegnato in lavori di coibentazione, Carlo racconta che prima della pausa pranzo si recava alla linea di area compressa per scrollarsi la polvere di dosso, una polvere cancerogena. «Durante la pausa pranzo – prosegue –, usavo la coperta di amianto per sedermi, poi la arrotolavo e la portavo con me. La sera, quando tornavo a casa, nell’attaccapanni c’erano due ganci e in uno appendevo la tuta da lavoro, nell’altra gli abiti di ogni giorno. Se solo avessi saputo che l’amianto era pericoloso, avrei preso provvedimenti come ho fatto per altre sostanze tossiche come l’acetilene. Oggi ho 9 punti di invalidità e delle placche calcificate all’interno dei polmoni, faccio una terapia a vita e ogni tanto vado in affanno. È difficile vivere così, anche per chi mi sta vicino». La prossima udienza è fissata per giovedì 29 gennaio.