Ci dicono danni che la moneta unica è uno scudo contro il rincaro delle materie prime. Ora uno studio pubblicato da Energy Policy mostra che non è vero: il greggio non si fa raffinando dollari. Cade un altro alibi a difesa della valuta comune
Nella sua Intervista sull’Italia in Europa (Laterza, 1998) Mario Monti, riferendosi al processo di integrazione europea, dice una frase apparentemente cinica, ma purtroppo fattualmente condivisibile: “Le paure sono state all’origine dell’integrazione: le paure hanno cambiato natura, però rimangono tra i motori dell’integrazione”. Sarebbe assurdo negare, ad esempio, che il timore della superpotenza sovietica abbia concorso a mantenere uniti i paesi occidentali, sotto l’ombrello della Nato. La storia però ha anche i suoi paradossi. Quando il blocco sovietico è caduto, per scongiurare eventuali volontà centrifughe si è scatenata una reazione centripeta uguale e contraria: il progetto eurista. Ma l’Urss non c’era più! Quale paura si sarebbe potuto usare per tenere insieme paesi tanto diversi? I lettori credo lo intuiscano, e Monti nel resto dell’intervista lo conferma: un motore dell’integrazione monetaria è stato il terrore economico. Alimentato, mi permetto di aggiungere, da un profluvio di informazioni superficiali, ripetute quotidianamente da testate altrimenti autorevoli e documentate.
L’esempio più sconcertante in proposito riguarda il prezzo della benzina. Dopo anni di manipolazione la maggioranza degli italiani è convinta che la flessibilità delle valute nazionali porterebbe a un aumento del prezzo alla pompa di parecchie volte (ben sette, secondo il vicedirettore di un quotidiano economico). Ora, non ci vorrebbe molto a capire che le cose non possono stare così: basterebbe un po’ di memoria. Da quando siamo entrati nell’euro, il prezzo del dollaro prima è aumentato del 35 per cento in meno di due anni, poi è diminuito di più del 40 per cento, ora sta di nuovo aumentando, di quasi il 20 in un anno (a fronte di un cedimento dell’euro). Non mi pare che ciò abbia mai fatto né stia facendo sfracelli, per due banali motivi: il primo è che il costo del dollaro influisce su quello del greggio, ma la materia prima, per quanto importante, è solo una delle componenti di costo (gli operai delle nostre raffinerie non vengono pagati in dollari); il secondo è che il prezzo alla pompa è composto per circa metà da accise, e quindi ogni variazione del prezzo industriale si riflette solo per metà sul prezzo al consumo. Per dire una parola di verità su questo tema, il centro studi a/simmetrie (www.asimmetrie.org) ha finanziato col sostegno della Nando Peretti Foundation uno studio i cui risultati sono stati appena pubblicati da Energy Policy, la più autorevole rivista internazionale di economia energetica.
Lo studio indica che una svalutazione del 20 per cento rispetto al dollaro porta a un aumento del prezzo della benzina di meno della metà (il 7 per cento). Una conclusione non sorprendente, alla luce delle osservazioni precedenti. Più interessante un altro risultato: la reazione del prezzo al cambio è asimmetrica, quando il cambio si svaluta (e il dollaro costa di più), il prezzo aumenta (poco), mentre quando il cambio si rivaluta (e il dollaro costa di meno) il prezzo non diminuisce quasi per niente. Insomma: i petrolieri traslano sul prezzo le svalutazioni, ma intascano le rivalutazioni. So che lo sospettavate, e infatti la vera sorpresa è un’altra: la reazione al prezzo del greggio. Qui le cose vanno al contrario: quando il greggio aumenta, il prezzo aumenta relativamente poco, mentre quando il greggio diminuisce, il prezzo segue con maggiore rapidità. Un risultato originale: perché mai i petrolieri, che traslano sul prezzo finale gli aumenti del dollaro, non lo fanno anche con quelli del greggio? Un pezzo della spiegazione è proprio il terrorismo psicologico e la percezione distorta che induce nei consumatori. Che cosa ci hanno detto per anni? Che la valuta forte e stabile ci serviva per proteggerci dal temibile aumento di prezzo delle materie prime. Due scemenze in una: l’euro non è stato così stabile e le fluttuazioni del prezzo del greggio sono a tre cifre, e contrastarle con pari fluttuazioni del cambio è un’ipotesi assurda! Qualcuno potrebbe mai pensare che quando fra 2007 e 2008 il prezzo del petrolio raddoppiò in un anno (da circa 65 a circa 130 dollari al barile) la risposta giusta sarebbe stata quella di rafforzare l’euro da 1,30 a 2,60 sul dollaro, per stabilizzare intorno a 50 euro il prezzo del barile?
La strategia del terrore economico richiede però che gli aumenti del prezzo delle materie prime siano evidenziati, per indurre i consumatori a cercare rifugio nello “stabile” euro. La conseguenza è che quando il petrolio aumenta i consumatori, messi in allerta, rispondono razionalmente, impiegando più tempo nel confrontare i prezzi, e costringendo i produttori a calmierarne l’ascesa per non perdere quote di mercato. La percezione di un euro “stabile”, viceversa, ha fatto abbassare la guardia ai consumatori, che così hanno assorbito interamente gli aumenti del dollaro, senza beneficiare dei suoi ribassi. Queste due asimmetrie spiegano anche perché ora, in un periodo di dollaro crescente e di greggio calante, il risultato netto è comunque una diminuzione del prezzo alla pompa. Cose piuttosto ovvie, appena si esca dal fantasmagorico mondo di certa stampa, dove i dollari costano di più solo se a svalutarsi è la lira (mentre quando l’euro si svaluta pare che il dollaro costi uguale), e dove la benzina si fa raffinando i biglietti verdi e non il greggio (il cui prezzo può calare anche se il dollaro sale)!