Il mall è stato per 30 anni il simbolo dell’America del neoliberismo con cui il presidente Reagan iniziò a raddrizzare le zampe a tutto il mondo con l’aiuto di Lady Thatcher e, soprattutto, della catena di supermercati Wall-Mart. Con la wall-martizzazione il bastone del comando è passato dai produttori ai grandi distributori. Sono loro che scelgono le merci e fanno il prezzo, includono o escludono dal mercato i produttori ribelli. In Europa i francesi lo hanno capito per primi e hanno finora evitato i morsi più duri della crisi perché, pur avendo perso gran parte della propria manifattura, hanno in mano una buona fetta della grande distribuzione europea.
Mall sta per Shopping mall, centro commerciale. Nei primi anni del nuovo millennio i mall sono cresciuti a dismisura anche in Italia. Quando i mall sono piastre impermeabili, aumentano le piene urbane durante i temporali. Quando non sono energeticamente auto-sufficienti, alimentano l’isola urbana di calore. Quando si raggiungono solo in auto, accrescono l’inquinamento dell’aria. Di rado ne fu considerata la sostenibilità sotto il profilo ambientale quando furono costruiti.
Il mall è un luogo inesistente di relazioni inesistenti. Uno spazio che l’etnologo francese Marc Augé chiama non-luogo, contrapposto ai classici luoghi antropologici. Non-luoghi sono gli spazi prodotti dalla società iper-moderna che non hanno identità, né relazioni, né storia, dove moltitudini di individui si incrociano senza entrare in relazione, spinti solo dal desiderio di consumare o di accelerare le proprie attività quotidiane. Negli Stati Uniti, dove il bar non esiste, il mall è, anzi era il punto di ritrovo d’elezione per gli adolescenti, nativi digitali e nello stesso tempo mall-nativi. Ma digitale oggi è la rete, la connessione, la relazione senza spazio fisico, e i consumi mutano, il neoliberismo trova spazi virtuali assai più ampi nella rete che nei mall, per quanto sterminati.
Quando ho saputo che Villa Italia, un piccolo mall in Colorado che frequentavo molti anni fa, è stato demolito mi si è stretto il cuore. Oggi gli Stati Uniti sono pieni di mall morti o moribondi, il cui destino viene diffuso senza scampo dal web. Sono spesso situati in quartieri borghesi alle prese con cambiamenti socio-economici epocali. Alcuni hanno già ceduto, molti lo faranno. Un film di successo visto a Natale, Gone Girl, ambienta in un mall in rovina una delle scene chiave. Si stima che potrebbero chiudere dal 15 al 50% dei 1500 grandi mall nei prossimi 10 anni. Gli americani stanno tornando in centro, lo shopping online si mangia già il 6% del mercato retail, e i giovani ‘topi da mall’, iPhone-dipendenti e disoccupati, sono un ricordo come i teddy boys di American Graffiti. E la tendenza è accentuata proprio nel Mid-West, dov’erano diventati un simbolo di progresso e sono ora coperti dalle erbacce, cattedrali in rovina abbandonate nello spazio delle grandi pianure. Senza contare che, sempre secondo Augè, sono invece i non luoghi del web a offrire all’uomo la nuova frontiera.
In Italia la grande distribuzione è l’unico soggetto che ancora possibilità e voglia di investire grandi risorse economiche e lo fa riproducendo sé stessa. Così tende a trasformare le vecchie aree industriali dismesse ai bordi delle città in nuovi mall. Qualche volta anche nuovo suolo indisturbato. Non possiamo criminalizzarla, perché spesso è l’unica risposta positiva alla crisi del lavoro. E durante le ondate di calore estive i mall danno rifugio agli anziani poveri. Qualche giovane coppia ci si sposa pure. Ma se la tendenza Usa si confermerà anche in Italia, si porrà il problema di recuperare questi spazi. E sarà possibile soltanto trovando un equilibrio tra i concetti di progresso, sviluppo e crescita, oggi spesso confusi tra loro quando non sono declinati in modo mistificatorio.
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