I finestrini del vecchio furgone sono appannati del nostro respiro. Al di là dei vetri scorre sfocato un paesaggio di ghiaccio. Nella notte i deboli riflessi dei fari accesi lo illuminano a momenti. Il resto è solo buio. Abbiamo appena attraversato la frontiera russa e ci troviamo nel Donbass o Novo Rossija come è stata ribattezzata questa regione dopo l’autoproclamata indipendenza dall’Ucraina. Il furgone è guidato da Igor, tuta mimetica e maglietta a righe bianche e azzurre, sul capo la kubanka, il tradizionale colbacco rotondo di astrakan nero dei cosacchi. Igor è un cosacco della Grande Armata del Don. Alto, grosso come un orso, gioviale, dalle risate grasse e gutturali.

“Sniper, sniper”, cecchini. Ride e accelera al massimo sulla strada ghiacciata e costellata di crateri di bombe. Non sappiamo se stia scherzando o se davvero nell’oscurità fuori si annidi la minaccia dei cecchini. Anche Andrej è un cosacco. Ma al contrario di Igor è piuttosto basso, asciutto al limite della magrezza ed ha un’espressione mite, quasi malinconica. Superiamo una colonna di carrarmati che viaggiano a fari spenti. Le loro sagome scure e massicce ricordano animali preistorici mastodontici estinti e poi misteriosamente tornati da un tempo antico. Davvero dentro l’abitacolo del furgone par di essere in una navicella spazio-temporale che viaggia indietro nella storia.

Igor mette in continuazione vecchie e struggenti canzoni della resistenza sovietica della seconda guerra mondiale. “Ancora, come i nostri padri, combattiamo contro i nazisti” dice Andrej mentre con una mano snocciola i grani di un rosario di legno. “Dono di un monaco di Kiev”. Quello che Andrej mostra della sua appartenenza ai cosacchi è un orgoglio pacato ma profondo. “Non siamo un’etnia. Siamo una comunità unita dalla fede. Da secoli difendiamo le frontiere russe. Il nostro nome ha origini antiche, viene dalla parola turco-tartara Qazaq che significa Uomo Libero“. A tratti le note elettriche di musica rock si intervallano con quelle melodiche delle canzoni partigiane creando uno strano contrasto, quasi stridente. Lo stesso che si potrebbe avvertire nelle parole con le quali Andrej spiega la sua ‘Fede’ cosacca. Certo c’è quella religiosa, ortodossa, Pravoslava.

Ma c’è anche una ‘Fede’ nella comunità umana la cui libertà si fonda sui diritti fondamentali di ciascun individuo. E’ qui che la religiosità di Andrej si intreccia paradossalmente con idee socialiste fino al rimpianto dell’Unione Sovietica. “Istruzione, salute, lavoro erano garantiti a tutti. Io figlio di povera gente sono potuto diventare ingegnere agronomo grazie a questo”. Parla della rivolta di Maidan con inaspettata simpatia. “La protesta era iniziata per rivendicazioni giuste. Contro la corruzione, per la protezione sociale, per affermare i diritti della gente comune che venivano calpestati. Sono state le oligarchie filo occidentali a strumentalizzarla trasformandola in scontro xenofobo e fascista”.

L’antifascismo è un altra tessera fondamentale che compone il puzzle dell’animo cosacco, nonostante durante il secondo conflitto mondiale ci siano state anche formazioni cosacche alleate coi tedeschi. In qualche modo comunque Andrej e tutti gli altri cosacchi che incontreremo vivono questa guerra come la prosecuzione della Grande guerra Patriottica come qui definiscono l’ultima guerra mondiale. Gli unici colori che spiccano su nastri fissati alle spalline delle loro mimetiche sono l’arancione striato di nero, quelli della medaglia per la vittoria sulla Germania che deriva dall’antico Ordine di San Giorgio. Non ci sono gradi sulle loro uniformi.

La loro organizzazione militare pare più simile a quella guerrigliera che a quella di un vero e proprio esercito. Una conferma di questa sensazione ci arriva da Pavel Driumov, comandante generale dei cosacchi del Don, che incontriamo nella hall dell’albergo deserto dove ha accettato di raggiungerci. Driumov è alto, magro, il viso scavato sotto l’immancabile kubanka. “Dicono che sono russo, che sono i russi a guidare la nostra lotta – esordisce – ma guardate questo. E’il mio passaporto”. E ci mostra il passaporto ucraino, dove, dalla foto in bianco e nero, pare fissarci un Driumov molto più giovane. Senza ancora i segni della guerra impressi sul volto. Ci parla addirittura di Guevarismo, Driumov, aggiungendo un’altra tessera al difficile incastro del quadro della ‘Fede’ cosacca che tentiamo di farci. Si entusiasma quando spiega che il compito che si sentono chiamati a svolgere non è soltanto quello di combattere ma anche e soprattutto di ricostruire le basi di una società equa non basata soltanto sul denaro. “Come lo è quella degli oligarchi che ha portato questa guerra. Dobbiamo ricominciare a ricostruire scuole, ospedali gratuiti. Da subito, non dopo” sottolinea con enfasi. Driumov ci ha portato in regalo una bottiglia di vodka. Quando se ne va è ancora lì, tappata, sul tavolo basso. Andrej propone tre brindisi. “Tre e il terzo è il più importante”. Quando per la terza volta alza il bicchiere spiega il perché. “Il terzo brindisi è a tutti quelli che sono morti in questa guerra. Tutti, senza distinzione di parte. Perché la pietà umana non conosce differenze”.

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