Tutti zitti, parlo solo io. Firmato: Matteo Renzi. Sì, proprio lui, il grande comunicatore della “generazione Telemaco”, maniacale cultore di Twitter cui affida, a colpi di slogan e hashtag, la diffusione torrenziale dei successi rivendicati dal suo governo. Eppure, dopo essersi insediato sventolando la bandiera della «trasparenza», gli sono bastati solo pochi mesi per imbavagliare Palazzo Chigi. Con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 16 settembre 2014 che introduce il nuovo «Codice di comportamento e di tutela della dignità e dell’etica dei dirigenti e dei dipendenti». Un vero e proprio giro di vite, rispetto alla normativa entrata in vigore con il precedente governo guidato da Enrico Letta, la cui approvazione ha generato tensioni e malumori nella sede del governo.
ALLA LARGA DAI GIORNALISTI – Per saggiare gli effetti della modifica regolamentare basta fare una telefonata. «Spiacente, non posso parlare con i giornalisti». A declinare cordialmente la richiesta è un alto dirigente di Palazzo Chigi, costretto al silenzio dalla norma restrittiva imposta dall’esecutivo in carica. D’altra parte, il confronto tra il nuovo testo e il precedente spiega da solo il radicale cambio di rotta. Nonostante l’obbligo (scontato) di astenersi «da dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione», il vecchio codice di comportamento faceva salvo «il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali». In sostanza, con Letta premier, a tutti i dirigenti e dipendenti veniva riconosciuto il diritto di critica purché il suo esercizio non scadesse nell’offesa. Nella nuova formulazione della norma, invece, lo stesso diritto viene fatto salvo solo «nell’esercizio dell’attività sindacale». Cioè garantito solo ai rappresentanti dei lavoratori. Non solo: il dipendente è obbligato ad astenersi «dal fornire ai mezzi di comunicazione qualunque informazione attinente il contesto organizzativo» o alle attività d’ufficio senza «previa autorizzazione». Insomma, una norma che sembra scritta con lo scopo di tenere i giornalisti lontani da Palazzo Chigi, obbligandoli a passare esclusivamente dall’ufficio stampa.
VOTO A PERDERE – Un provvedimento, tra l’altro, accompagnato da roventi polemiche nei giorni della sua approvazione. Già lo scorso agosto alcuni rappresentanti sindacali dei lavoratori della presidenza del Consiglio avevano alzato le barricate denunciando che, «oltre ai profili di illegittimità della procedura, si è fortemente limitato il ruolo e la terzietà del Comitato unico di garanzia (Cug)». Ossia, l’organo consultivo chiamato ad esprimersi su questioni riguardanti il personale, riunito il 28 agosto per pronunciarsi proprio sul nuovo Codice etico. Nel corso della seduta Bruno Stramaccioni dell’Unione sindacale di Base (Usb) fa notare che, «pur sussistendo il numero legale per lo svolgimento della riunione», sarebbe opportuno rinviare di una settimana la discussione vista l’assenza di alcune sigle sindacali. Non solo: accusa l’amministrazione di aver contravvenuto ai «principi di correttezza, lealtà, imparzialità e democrazia». Ma il presidente del Cug, Monica Parrella, tira dritto e consuma lo strappo. Stramaccioni fa mettere a verbale le dimissioni dell’Usb dal Comitato e abbandona la sala accusando il presidente di «parzialità». A questo punto il parere (favorevole al testo del governo) viene approvato con voto unanime dei presenti.
SINDACATI ALL’ATTACCO – «Noi dell’Usb ci siamo dimessi dal Cug prima dell’appprovazione di questo documento – ribadisce Stramaccioni a ilfattoquotidiano.it -. In dissenso sul metodo, perché è mancato un vero confronto con i rappresentanti dei lavoratori, e soprattutto nel merito perché le restrizioni del diritto di critica e della libertà di parola sono inaccettabili. Un vero e proprio bavaglio». Silenziati dipendenti e dirigenti, per le notizie non resta che aspettare il prossimo tweet di Matteo Renzi.
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