Come ogni anno, si apre (oggi) il World Economic Forum di Davos e, a rimorchio, il dibattito sulla crisi del Davos Man (di donne ce ne sono sempre poche, ai vertici). Sul Financial Times, nella sua rubrica dedicata al management, Andrew Hill solleva il dubbio: meglio andare qualche giorno tra le Alpi svizzere in cerca di Food for thoughts, come si dice in quegli ambienti (“cibo per pensieri”), o stare a casa a lavorare? Chi ha cose serie di cui occuparsi come Mario Draghi, in procinto di spingere la Bce a comprare titoli di Stato contro la deflazione, non si muove dalla scrivania.
Eppure quando un leader non si presenta a Davos o passa solo da comparsa, come Enrico Letta un anno fa, subito si ammanta di un’aura di irrilevanza. Dopo decenni di riflessioni sulla crisi dei Davos Man, quella élite anglofona di amministratori delegati, ministri e intellettuali globali che si sente incaricata di decidere i destini del mondo, quest’anno i dati del Fondo monetario internazionale arrivata alla vigilia del meeting svizzero sembrano offrire una sentenza definitiva: la Superclass non esiste più.
I numeri del World economic outlook sono questi: crescita globale rivista al ribasso dello 0, 3 per cento, al 3, 5 per cento nel 2015 e 3, 7 l’anno dopo. Ma la media non dice tutto: il Fmi continua a correggere al ribasso le stime per l’Europa e al rialzo quelle per gli Stati Uniti (non parliamo neppure dell’Italia, + 0, 4 nel 2015 e + 0, 8 nel 2016, cioè piatta stagnazione). Ma la spaccatura nell’Occidente transatlantico è poca cosa a confronto con quella che divide i Paesi emergenti da quelli che amavano definirsi sviluppati: “noi” + 2, 4 quest’anno e idem il prossimo, “loro” + 4, 3 e + 4, 7. Anche nel campo degli emergenti, per la prima volta da molto tempo, ci sono interessi contrapposti: il petrolio a basso costo imposto dall’Arabia Saudita e dal cartello Opec fa rifiatare le industrie europee ma sta distruggendo la fragile economia della Russia e di molti Paesi esportatori di greggio come il Venezuela.
La geopolitica pesa più della fame di petrodollari. I mercati finanziari stanno cominciando a rimanere vittima di questi anni di calma artificiale, dovuta alla droga monetaria offerta dalle banche centrali: dalla Cina incerta se alimentare ancora un boom precario o lasciar sgonfiare le tante bolle in modo drammatico alla Svizzera che rinuncia a difendere il cambio, lasciando apprezzare il franco, costringendo anche la Danimarca (che è fuori dall’euro) a reagire. I membri della Superclass che si riuniscono in Svizzera quest’anno hanno agende e priorità diverse, spesso opposte. Neppure a Davos credono più al dogma che quando cresce la marea salgono tutte le barche. Qualcuna affonda.
Twitter @stefanofeltri
il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2015
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