La tragedia di Parigi non ha coinvolto i media ed il popolo giapponese. Poche le manifestazioni di solidarietà, nessun dibattito ufficiale, nessuna pubblicità per l’edizione del settimanale satirico andata a ruba in tutto il mondo. La “satira” politica nel Paese è morta negli anni ’60. E non c’è alcun segnale che possa risorgere
Primo febbraio 1961. Kazutaka Komori, 17 anni, si presenta a casa di Hoji Shimanaka, presidente della prestigiosa casa editrice Chuokoron. Da qualche mese, la rivista sta pubblicando a puntate una esilarante novella satirica sulla casa imperiale, Furyu Mutan, di tale Shichiro Fukasawa, scrittore già affermato. Nel suo “sogno bizzarro”, Fukasawa immagina un’improbabile insurrezione popolare che finisce con l’occupazione del Palazzo Imperiale e la decapitazione delle Maestà imperiali. Le cui teste – ed è uno dei passaggi più “pesanti” – nel rotolare dalle scale emettono il rumore di lattine vuote.
In Giappone era dai tempi dello Shogun che nessuno aveva osato tanto. Alla domestica che gli apre la porta Komori si annuncia con il proprio nome e dichiara di essere lì per “fare giustizia”. Chiede del padrone di casa, e una volta informato che non c’è tira comunque fuori un coltello e aggredisce prima la domestica, uccidendola, poi la moglie di Shimanaka, che resta gravemente ferita. Poi, a piedi, raggiunge il primo posto di polizia e si costituisce. Gli daranno 11 anni, ma non li sconterà tutti: dopo appena tre anni muore, pare suicida, in carcere.
Il caso Shimanaka è, giustamente, considerato il “funerale” ufficiale della satira politica in Giappone: non solo non provocò alcuna reazione di solidarietà da parte degli altri mass media, ma lo stesso Shimanaka, impaurito e sconvolto, chiese pubblicamente scusa, si dimise da ogni carica e si rifugiò in un tempio.
Anche Fukazawa sparì dalla circolazione, errando per l’arcipelago e vivendo di piccoli espedienti e di ospitalità da parte di amici e ammiratori. Neanche nel 1983, quando il regista Shoei Imamura vinse la Palma d’Oro a Cannes con la versione cinematografica della sua prima opera (“Le canzoni di Narayama”, uno stupendo racconto delle vecchie donne nel nord del Giappone che si rifugiavano in montagna lasciandosi morire di fame per non “pesare” sulle loro famiglie) il paese lo riabilitò. Morì pochi anni dopo, in una fatiscente fattoria in periferia di Tokyo, dove ebbi il privilegio di andarlo a trovare, una volta, e di passare una serata ascoltando i suoi “stornelli maliziosi” molto simili a quelli romaneschi del Sor Capanna.
Speravo tanto che i fatti di Parigi potessero produrre una “scossa”, svegliare l’Impero dal suo triste torpore. E invece no, niente da fare.
Nemmeno l’immensa tragedia di Parigi è riuscita a riportare il sorriso – figuriamoci il gusto per lo sberleffo – nel sempre più mesto popolo giapponese. Un popolo che diciamo la verità, non sa, o quanto meno non riesce più, a ridere.
Di Charlie, ma soprattutto di tutto ciò che questa tragedia ha rappresentato e speriamo continuerà a rappresentare nonostante le pur numerose ipocrisie e gli squallidi “distinguo” registrati dell’indignatisissimo (a parole) Occidente, ai giapponesi non frega nulla. Ma proprio nulla.
Al di là delle scontate manifestazioni formali di sdegno e solidarietà, dei messaggi ufficiali e delle più che distaccate cronache degli inviati relegate tra le curiosità della giornata, il Giappone, i suoi intellettuali e la sua sempre più impalpabile “opinione pubblica” hanno perso l’ennesima occasione di uscire dal loro onanismo culturale rinunciando ancora una volta ad ogni pretesa – e talvolta storicamente giustificata – “extra-asiacità”. Niente da fare: di fronte al potere comunque costituito i giapponesi reagiscono come i cinesi, come i coreani, come i tailandesi: giù la testa.
Se possibile, con una colpa in più: perchè se in Corea (entrambe), Cina, Tailandia e la stragrande maggioranza dei paesi asiaitici esistono ancora pesanti e assurde leggi contro il vilipendio dello stato e della religione (in Tailandia si rischia la pena di morte, in caso di offesa alla famiglia reale) in Giappone sono state abolite da un pezzo. Per cui del fatto che non esista una satira degna di tale nome, in Giappone – tranne come ricordavamo all’inizio una copiosa quanto becera produzione xenofoba e perfino antisemita – non è colpa né di leggi liberticide, né del presunto relativismo culturale che gli esperti ogni tanto tirano fuori, come per i diritti umani: in Asia i valori sono diversi, non possiamo giudicare con i nostri parametri. Così come diverso è il valore della vita, così è diverso il valore – e la pericolosità sociale – dello sberleffo, spesso considerato tutt’uno con l’insulto.
Balle. Il Giappone ed i giapponesi hanno anche loro, come la maggior parte dei popoli, un’antica e vivace tradizione di giullari iconoclasti: basta pensare al kyogen, la “parola dei folli”. Per secoli, prima di essere ridotto ad aria fritta e autocensurata, ha svolto la funzione della commedia dell’arte ma anche della satira sociale, dando ai poveracci almeno l’impressione di potersi prender gioco dei potenti. Perchè è di questo che si tratta, quando si parla di satira. Criticare, il più pesantemente possibile sino a farsene beffe, il potere. Quello vero.
Ecco perché non preoccupa tanto, oggidì, l’assenza dello sberleffo anti-imperiale. Ridotti come sono, ostaggi di liturgie pesanti e spesso ridicole, senza alcun potere reale e deprivati dei più fondamentali diritti umani (non possono uscire liberamente, guidare un mezzo, andare in bicicletta, accettare inviti che non siano rigorosamente concordati con l’Agenzia imperiale) per l’Imperatore e la sua “povera” famiglia essere anche oggetto di vignette sarcastiche stravolgerebbe il ruolo stesso della satira, che come sappiamo deve partire dal basso ed attaccare (ridicolizzandoli) i potenti. Non offendere, deridendoli ulteriormente, i poveracci.
Se ai tempi di Fukasawa aveva forse ancora senso attaccare la casa imperiale, oggi non ne avrebbe granché. Corruzione, arroganza e cialtroneria non abitano certo nel palazzo imperiale, ma vi prosperano, inattacati, tutto intorno: a Nagatacho, il centro politico di Tokyo, e nei palazzi di Kasumigaseki, Ohtemachi e Marunouchi dove l’alta burocrazia e le grandi aziende continuano a “bloccare” ogni possibilità di ripresa, di vera “crescita” economica e sociale del Giappone. Un paese dove in metropolitana nessuno parla – figuriamoci ridere – con il vicino e dove l’arte – e la terapia – della risata è oramai affidata e gestita dalla tv e dai suoi mostri sempre più idioti e sguaiati.