Il decreto che dispone la trasformazione dei dieci maggiori istituti in spa ha coagulato un fronte bipartisan di voci critiche. Per l'economista Giulio Sapelli è un vero e proprio “colpo di Stato bancario” fatto “in un momento di vacatio istituzionale: Napolitano non lo avrebbe mai firmato". Ma in realtà, al netto dei probabili ricorsi, per altre più di 700 piccole popolari non cambia nulla. E non è detto che sia un bene
Dalle critiche di Susanna Camusso e Carmelo Barbagallo alle barricate evocate da Matteo Salvini, dallo sconcerto espresso da esponenti del mondo bancario come il presidente di Banca Etica Ugo Biggeri alla netta contrarietà del ministro “ciellino” Maurizio Lupi, cui fa eco il secco “no” espresso dall’Ncd, da Forza Italia, da diversi esponenti dello stesso Pd (primo fra tutti il cattolico Giuseppe Fioroni) e da democristiani d’antan come Paolo Cirino Pomicino. Altrettanto nette nel giudizio le opposizioni, con il Movimento 5 Stelle che insieme all‘Adusbef preannuncia un esposto alla magistratura per aggiotaggio, cioè turbativa di mercato.
Mai prima d’ora un provvedimento del governo era riuscito a raccogliere un così vasto e trasversale fronte di contrari. E non è che un antipasto. Il giudizio più duro viene da un economista e manager di lungo corso, Giulio Sapelli che, interpellato dall’Ansa, ha detto senza mezzi termini che la riforma delle banche popolari introdotta dal governo nel decreto “Investment compact” è un vero e proprio “colpo di Stato bancario, un golpe che puzza di incostituzionalità compiuto ai danni dell’unico esempio di democrazia economica che ha il nostro Paese”. Un giudizio forte, motivato anche dal fatto che l’Italia si trova “in un momento di vacatio istituzionale: il governo delibera un decreto che Giorgio Napolitano non avrebbe mai firmato essendo sempre stato a difesa del mondo del credito cooperativo”, sottolinea Sapelli, aggiungendo che ci sono forti dubbi sulla costituzionalità del provvedimento: “Non è pensabile che possano essere modificati con la legge gli statuti di banche che sono private”.
Un fuoco di sbarramento ad alzo zero che lascia presagire un’escalation parlamentare e una valanga di ricorsi alla Corte costituzionale. Per non parlare delle illazioni e delle polemiche: secondo molti, a partire dalla minoranza del Pd, a ispirare l’abolizione del voto capitario e la trasformazione delle popolari in società per azioni sarebbero stati gli uomini della City londinese (leggi Davide Serra, amico, consigliere e finanziatore del premier Matteo Renzi), desiderosi di mettere le mani su qualche buona preda bancaria e di speculare sull’inevitabile consolidamento del settore.
Più convincenti coloro che spiegano la mossa del governo con la necessità di “accasare” al più presto Monte dei Paschi di Siena e Banca Carige. Mps, in particolare, in seguito al mancato superamento degli stress test si trova costretto a varare una ricapitalizzazione da 2,5 miliardi di euro, deve ancora restituire i cosiddetti Monti bond per oltre un miliardo e – come richiesto dalla Banca centrale europea a metà dicembre – deve ulteriormente alzare i requisiti minimi di capitale dal 7 al 14,3%: operazione complicata da condurre in porto da soli, specie dopo aver fatto un aumento di capitale da 5 miliardi meno di un anno fa. Ecco che allora un’aggregazione con la bresciano-bergamasca Ubi potrebbe aiutare, creando il terzo polo bancario italiano dopo Intesa e Unicredit e preservando l’italianità del Montepaschi. Una soluzione, questa, che big della finanza come Ubs e Mediobanca trovano molto logica e congruente, specie ora che il governo ha deciso di trasformare per decreto Ubi e le altre nove maggiori banche popolari italiane in società per azioni.
Uno dei principali problemi sollevati dal decreto è però la facoltà in capo alla Banca d’Italia di negare ai soci delle popolari il diritto di rimborso delle azioni e di altri strumenti di capitale “qualora ciò sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca”. In pratica un vero e proprio esproprio a danno dei soci che non figurava nelle bozze del decreto circolate nei giorni scorsi e che tradisce la fretta del governo di chiudere la partita a suo favore: non solo le prime dieci banche popolari saranno costrette a trasformarsi in società per azioni pena sanzioni, rischio di revoca dell’autorizzazione all’attività bancaria e liquidazione coatta amministrativa, ma gli azionisti saranno obbligati a restare tali anche se non condividono le modifiche statutarie. Una disparità di trattamento rispetto ai soci di qualunque società (quotata e non) che solleva più di un dubbio sulla costituzionalità di questa norma e ci sono buone probabilità che – tra ricorsi alla Consulta e iter parlamentare – di questa pasticciata pseudo-riforma alla fine non se ne faccia nulla.
Pseudo-riforma perché in realtà le norme riguardano solo le prime dieci banche popolari, le più grandi e potenti come Ubi, Banco Popolare, Popolare di Milano, mentre per le altre 700 e rotte sparse sul territorio italiano non cambia assolutamente nulla. E questo non è detto a priori che sia un bene. E’ da più di vent’anni che le banche popolari resistono a qualunque sollecitazione al cambiamento, compresa l’autoriforma di cui si parla da anni e che non è mai stata portata a compimento. E se è vera da un lato la straordinaria importanza che queste banche rivestono nell’erogazione del credito alle piccole e medie aziende sul territorio, dall’altro occorre non dimenticare come i meccanismi di governo societario e lo stesso voto capitario abbiano contribuito in molti casi a cristallizzare gli assetti di potere e a impedire un sano ricambio: così, giusto per fare due esempi, Lorenzo Pelizzo ha presieduto per quarant’anni la Popolare di Cividale, mentre la Popolare di Ragusa è stata governata per decenni dalla famiglia Cartia. Le cristallizzazioni di potere possono assumere grande rilevanza intrecciandosi con la politica e una certa imprenditoria, determinando vicendevoli sostegni e talvolta sconfinando in veri e propri comitati d’affari. Un esempio della storia recente riguarda la Banca popolare di Lodi a guida Fiorani, un altro è quello della Popolare di Milano dell’era di Massimo Ponzellini. E la politica naturalmente non è estranea a tutto questo. Anzi, a livello locale gli investimenti delle banche sul territorio sono determinanti per la politica. Quelli delle Fondazioni bancarie e quelli delle banche popolari, come sanno bene a Verona, a Torino e in qualunque altra parte d’Italia.
Tutto questo per dire che l’erogazione dei crediti alle piccole e medie imprese, il mutualismo, lo spirito cooperativo c’entrano fino a un certo punto con la polemica per l’abolizione del voto capitario e la trasformazione in spa delle prime dieci popolari italiane. E’ in primo luogo uno scontro di potere e tra poteri, e a giudicare dalla fretta con cui è stato ingaggiato pare di capire che la situazione a Siena è molto seria.