Il mago della comunicazione resta Giovanni Paolo II. Pochi giorni dopo l’elezione, nell’ottobre 1978, incontrò nel palazzo apostolico i giornalisti e, scendendo dal tronetto, si mescolò a loro rispondendo in cinque lingue a qualsiasi domanda. Sembrava un cocktail party, con i microfoni al posto dei bicchieri di whisky o di champagne. Fu una rivoluzione della comunicazione vaticana.
Rotto il ghiaccio, Giovanni Paolo II inventò le conferenze stampa volanti durante i suoi viaggi internazionali. Poco dopo il decollo il papa polacco abbandonava la sua zona riservata ed entrava nella parte dell’aereo dove stavano i giornalisti. Era lui, il pontefice, ad avvicinarsi lentamente al posto di ognuno ascoltando e rispondendo.
Un faccia a faccia troppo ravvicinato per un personalità timida come Joseph Ratzinger. Il papa tedesco preferiva da buon accademico i discorsi cesellati in anticipo. Non poté abolire gli incontri ad alta quota, ma si adattò al rito per senso del dovere. Si fermava all’inizio della “zona” dei giornalisti e rispondeva a domande mandate prima della partenza al portavoce papale.
Conosciute in anticipo. Ciò non gli impedì di fare la tremenda gaffe sul condom, durante un volo in Africa nel 2009, quando dichiarò che il problema dell’Aids “non si può superare con la distribuzione dei preservativi, che anzi aumentano i problemi”. Scoppiò un putiferio mondiale, dichiarazioni indignate di scienziati, di governi, persino alcuni missionari smentirono sommessamente il pontefice. Lo scandalo che oscurò il suo viaggio.
Ratzinger aveva bisogno di soppesare con calma i suoi concetti. Come quando, recandosi a Fatima confidò ai giornalisti nel maggio 2010 – a proposito degli abusi sessuali del clero – il fatto “terrificante” che le maggiori persecuzioni contro la Chiesa non vengono da nemici esterni, ma sorgono “dal peccato nella Chiesa”.
Francesco, agli occhi del mondo, non sembra avere problemi di comunicazione. Ma è un’idea sbagliata. Papa Bergoglio ha dovuto imparare . A Buenos Aires non era un appassionato dei rapporti con la stampa, persino la tv cattolica della diocesi doveva sospirare per una rara intervista. Ma, diventato pontefice, Francesco ha intuito che era indispensabile il ping pong con i media per rafforzare il suo messaggio. Sulla scia di Karol Wojtyla, ma con una profonda differenza.
Giovanni Paolo II con virtuosismo da artista diffondeva sprazzi di una linea politico-religiosa già decisa in anticipo. Era capace di spiegare – in piena guerra di Jugoslavia – che il buon Samaritano (a proposito della Bosnia aggredita dai Serbi) non cura solo il ferito, ma interviene anche in anticipo contro il malvivente, perché popolazioni inermi non devono essere lasciate soccombere a un “ingiusto aggressore”.
Sorvolando l’Atlantico sul finire degli anni Novanta, l’ho sentito scandire lentamente che il Che Guevara era affidato al giudizio di Dio, ma “io sono convinto che voleva servire i poveri”. O ancora che la fine dell’Urss aveva lasciato sulla scena mondiale una sola superpotenza “e non so se è un bene, ma è così”. Lampi di indicazioni strategiche.
Francesco invece non parla da politico. Parla al giornalista, ma si rivolge in realtà alla massa dei credenti come il parroco di fronte al fedele nel confessionale. O il prete che nel quartiere parla con tutti, compresi i lontani, gli agnostici e i non credenti. E usa un linguaggio popolare semplice, persuasivo. A suo modo molto laico.
Che si fa con un corruttore: gli si dà un calcio sul fondo schiena o gli si fa capire che non è aria, presentandosi come finti tonti? E ha senso figliare passivamente come conigli o l’accento non va messo piuttosto sulla “paternità responsabile”? L’immediatezza dell’eloquio diventa sulle sue labbra un modo per fare riflettere. “Il problema sono le lobby, non i gay”, ha risposto una volta a una domanda pungente.
Francesco parla alla buona, ma è tutt’altro che sprovveduto. Anche nelle battute, che sembrano sfuggite al suo controllo, c’è un’idea chiara. D’accordo sulla libertà d’espressione…ma i diritti non sono isolati, sono in relazione con altri valori, per esempio la sensibilità per l’altrui religione. Provocare a oltranza può fare scappare un “pugno”. Discorsi di realismo quotidiano, da un uomo in carne e ossa. Con lo sguardo rivolto alla globalità del mondo. Perché è in corso una “guerra mondiale a pezzetti” e bisogna spegnere gli incendi e non accontentarsi di enunciazioni impeccabili.
Non si capisce Bergoglio senza il gioco del calcio, sostiene Eduardo Febbro, giornalista di Buenos Aires nato nel quartiere ultrapopolare di Boca. C’è il calciatore dedito allo schema, chi attende l’assist del compagno per trovare uno spazio sgusciando tra la squadra avversaria “e c’è Maradona, che inventa il suo spazio. Bergoglio è Maradona”.
Il Fatto Quotidiano, 21 Gennaio 2015