Cultura

Poesia – Duetti #06: ragionar d’amore con il corpo. Ilaria Drago e Isabella Panfido

La poesia d’amore, si sa, è la poesia per antonomasia, ma sbaglierebbe chi pensasse che lo è a causa della sua ‘sentimentalità’. Tutt’altro.

Essa lo è poiché ridà alla parola poetica due tra le sue qualità più importanti: quella di essere ‘materia’, cioè corpo e voce, e quella di essere un efficace e spietato strumento di conoscenza.

Essa cioè si pone in rapporto con le caratteristiche ‘vocali’, dunque corporee, e gnoseologiche che sono proprie di ogni buona poesia.

Non è questione di sentimenti, insomma, o, peggio, di sentimentalismi – per quelli bastano le onomatopee – quanto di corpo e di conoscenza.

Scrivere poesie d’amore ha sempre a che fare con i corpi e quando approccia i sentimenti, non lo fa per esprimerli, ma per scavarli, penetrarli sino in fondo, metterli all’angolo, smascherarli.

Anzi a volte utilizza la porta di uno dei capi di questa endiadi, per raggiungere l’altro.

E’ il caso dei due bei libri di poesia di cui vi parlo oggi.

Ilaria Drago non è solo poeta, ma attrice (allieva di Perla Peragallo), autrice di teatro, regista, narratrice.

Questo L’inquietudine della bestia riassume in sé uno dei tratti essenziali del suo lavoro: la corporeità, la capacità di dare alla parola voce e vibrazioni, di pronunciare, interpretare, in una maniera che definirei ‘carnale’ i complessi e crudeli discorsi che fanno il nocciolo del suo dire.  Penso a spettacoli come Giovanna d’Arco, Mariacane, o il recentissimo MaddalenaMaria, veri e propri “concerti scenici” in cui parola, gesto e musica si fondono attorno a un nocciolo vibrante fatto di corpo e voce.

Il luogo dell’amore è il corpo, è il corpo che non solo (e non tanto) vive l’amore incarnato, è piuttosto esso stesso a pensarlo: «parlo dal male che ho / (…) /parlo dalla nebbia della ferita / dall’inquietudine della bestia / da questa bocca fessura di carne». Sesso e parola, amore e parola, hanno in comune una ‘bocca’, qualcosa fatta per accogliere e che invece, la pronuncia poetica esprime, accoglie solo per espellere:  «Ogni cosa mi appoggia sulla bocca / la lingua la distingue come un canto».

Anche il dolore e l’assenza diventano materia, si fanno pelle, corpo, carne che circonda ciò che non c’è più: «la tua assenza scortica a pezzi /la passione che mi monta /e diventi una frusta / e mi lasci un buco».

Persino gli sguardi si fanno sostanza, nel racconto di un amore che è un instancabile corpo a corpo diretto da un’infallibile strategia animale: «Fossero centomila le tue mani a toccarmi / e migliaia gli occhi come artigli fossero/ a tenermi impigliata ragna alla tua tela».

Ma è proprio questo corpo, il suo sforzo muscolare e teso, il suo flettersi e presentarsi, ad aprire la scena a panorami imprevisti, a pensare una possibile soluzione, a scovare, riflettendo, un possibile varco nella rete: «adesso sappiamo / che per correre bisogna sapersi fermare / ed essere terra pronta a morire o cambiare». Il corpo pensa l’amore e come liberarsene.

Isabella Panfido è poeta e traduttrice (dal russo e dall’inglese, sue le raffinatissime versioni in veneziano di numerosi sonetti shakespeariani poi confluiti nel Milione di Paolini) e questo La grazia del danno è la sua seconda raccolta.

Anche in questo caso si tratta di una raccolta d’amore molto sui generis, dove però è il pensare d’amore a farla da padrone.

Per Panfido: l’amore, letteralmente “ha luogo” avviene allocandosi nel pensiero, tanto quanto nello spazio, il poeta ragiona (dantescamente) d’amore, perimetrandone (petrarchescamente) i luoghi, ma poi dilagando altrove, su ogni aspetto della vita, del ‘sentirsi’ vivere.

Che si tratti di luoghi distillati e ambivalenti («spalmare il disincanto / sull’intonaco avorio / ad affresco»), o invece di più ‘triviali’ e quotidiani set («Cerco le stazioni di una passione / tra un camion ceco e un SUV nostrano»).

Così, per quanto stilnovisticamente l’amore (anche quello perduto) seguiti ancora a passare dagli occhi, essi sono stavolta quelli dell’altra, quelli di chi ha accecato l’amore che più non è: «la donna del mio uomo ha occhi chiari / che uncinano i pensieri non emersi / per metterli a seccare come pesci / nel sale di una bocca condivisa». Dove impressiona l’assonanza non solo metaforica con gli “occhi-artigli” di Drago.

Non a caso, nella ricerca di un senso (che renda sopportabile il crudo del danno) è al corpo che infine si giunge: «L’abbaglio nella temporanea cecità / illumina il fondo / intatto / come l’innocenza di una bestia // e svela inattesa la grazia del danno».

La grazia del danno, insomma, è nell’evitare lo scacco, quello del pensiero, tanto quanto quello del corpo, transitando dall’uno all’altro, dall’io, all’altro da sé che pure è un’assenza che rifiuta di farsi memoria.

Poco conta, a mio avviso, l’evidente differenza stilistica. È questa distanza a metterle in dialogo così fitto.

In ogni caso, sia pure attraverso scelte poeticamente molto differenti, entrambe le autrici giocano con sapienza la loro scommessa, una scommessa difficile, visto che il luogo e il corpo prescelto, quello dell’amore, è tra i più frequentati letterariamente.

Ma è una scommessa che è possibile vincere: tenendo ben allenati corpi e parole, respiri e pensieri.