Come sempre nella produzione di questa band al femminile una parte importante la giocano i testi. Che questa volta parlano di relazioni, e dell’interferenza del capitalismo avanzato nelle comunità umane; di un sistema che ha immolato il lavoro sull’altare di chissà quali idoli; di una sperequazione tra ricchi e poveri che si è fatta sempre più aspra e insostenibile
Gennaio parte con l’elettricità giusta, perché tornano nei negozi di dischi, dopo un bel periodo sabbatico, le Sleater-Kinney: è appena uscito ‘No Cities To Love‘, il loro primo disco dopo dieci anni di silenzio. Lo produce Joan Goodmanson. Chi vi scrive lo sta ascoltando in loop da ore, e segretamente apostrofa Carrie Brownstein, Corin Tucker e Janet Weiss per averci fatto attendere così tanto. Il sound è il solito, dell’Altra America anni novanta: quello tipico di un power trio affilato e armonioso, capace di sciorinare un rock rotondo e geometrico, spigoloso ma pulito. Musica per pogare in un centro sociale, ma anche nella sala trucco del David Letterman Show. La furia hardcore-punk dei primordi si è sciolta e ricompattata in una soluzione rock per adulti che non metteranno mai la testa a posto. Le Sleater-Kinney sono state le esponenti più famose e ragionevolmente oltraggiose di quel movimento passato sotto il nome di Riot grrl. Un urlo viscerale neo-femminista (della “terza ondata”) che ha contribuito a vivificare la musica di Elvis (un maschio) subito dopo il grunge (che era roba di maschi con la camicia da boscaiolo…).
Nonché a ripristinare la possibilità di un discorso di ribellione femminile o meglio, tout-court, dopo il grande sonno edonistico degli Ottanta e ben prima delle convulsioni mediatiche delle Femen. La maggior parte delle riot grrl suonavano un po’ come veniva, poche luci e molte ombre creative e tecniche: appunto, tra l’altro, estendibile alla quasi totalità del rock di quel tempo, costretto a tornare indietro di una dozzina d’anni almeno, per non impazzire. Ma da quel mucchio selvaggio solo una band si elevò al rango dei Classici: le Sleater-Kinney (altro che Courtney Love). Le equivalenti al femminile, per caratura espressiva e integrità artistica, dei mai troppo rimpianti Fugazi.
Nel 2005 usciva “The woods”; ma l’anno seguente le Nostre annunciavano il loro ritiro. Troppa ansia, stress, incombenze materne. Lascia quindi felicemente sgomenti questa loro rentrée, preannunciata dall’uscita di un box-set contenente tutti i precedenti album in versione rimasterizzata: “Start Together 1994-2006”. “Non suonavamo insieme da tanto di quel tempo. Un po’come ricominciare da zero. Volevamo riprovare il nostro valore”. E ascoltando il nuovo ‘No Cities To Love’, vi garantiamo che la loro potenza di fuoco, intessuta di fine melodia, non ha perso un grammo della sua lucentezza. Si è fatto solo più calibrata; e va dritta al sodo, come nelle loro migliori pagine. La complessità della semplicità. Avranno pure più di quarant’anni oggi le tre ragazze riot. Ma graffiano, ancora, eccome.
Ritmo, lotta e consapevolezza. Attivismo e diffusione di messaggi. Come sempre nella loro produzione, una parte importante la giocano i testi. Che questa volta parlano di relazioni, e dell’interferenza del capitalismo avanzato nelle comunità umane; di un sistema che ha immolato il lavoro sull’altare di chissà quali idoli; di una sperequazione tra ricchi e poveri che si è fatta sempre più aspra e insostenibile; del sogno americano strappato o quantomeno stinto; del soft power, l’unico potere concepibile oggi; di un idealismo, anche nel rock, precipitato ai minimi termini.
Gruppo influentissimo, come mai nessun altra band tutta al femminile nell’ultimo ventennio, le Sleater-Kinney sono molto amate dalla critica e anche da loro illustri colleghi, come i Pearl Jam e i Rem. Questo loro ottavo album si chiude con Fade: “Se davvero stiamo ballando il nostro canto del cigno, allora amica, scatenati come mai prima”.