I fichi rossi di Mazar-e Sharif è uno dei libri più belli, crudeli, spietati, cinici e reali che abbia letto negli ultimi tempi. Scritto da Mohammad Hossein Mohammadi (pubblicato in Italia da Edizioni Ponte33 e tradotto da Narges Samadi) è una sorta di “romanzo a racconti” che narra l’Afghanistan (più precisamente la città di Mazar-e Sharif) negli anni che vanno dal ritiro delle truppe sovietiche a quelli dei bombardamenti intelligenti sulla popolazione civile perpetrati dalla coalizione degli uomini liberi dell’Occidente.
Si tratta di storie che sono veri e propri pugni nello stomaco. Storie scritte con uno stile asciutto e semplice, uno stile che richiama il new journalism di Rodolfo Walsh o Ryszard Kapuściński senza però essere mai giornalistico, e alle strazianti emozioni che echeggiano nei romanzi di Yasmina Khadra.
Cronaca di un conflitto interminabile, i quattordici racconti de I fichi rossi di Mazar-e Sharif si trasformano, grazie alla scrittura lucida, elegante ed intensa di Mohammad Hossein Mohammadi, in una sinfonia di voci e di sentimenti sulle variazioni della guerra, la morte, l’amore, la nostalgia per un Afghanistan perduto.
La dolcezza del passato e l’orrore di un lungo presente, simboleggiati dall’albero di fichi del titolo che in un giardino di Mazar-e Sharif una bambina fruga alla ricerca di un frutto maturo, mentre il rombo degli aerei preannuncia morte e terrore, sono narrati attraverso una sapiente miscela di fantasia e realtà. Mohammadi, uno dei protagonisti della società civile di un Paese che cerca disperatamente di ritrovare una propria strada verso la normalità, ha scelto di far parlare tutti i protagonisti della tragedia corale nella quale l’insensatezza della guerra ha gettato l’Afghanistan: contadini uccisi mentre si apprestano a raccogliere il grano nell’intervallo tra una battaglia e l’altra; bambini che la guerra ha reso orfani, mutilati, segnati a fuoco dall’orrore senza fine degli adulti; madri di famiglia costrette a prostituirsi nonostante l’incubo della lapidazione; giovani fanciulle concupite come bottino di guerra; uomini normali che la guerra trasforma in mostri irsuti e insensibili; combattenti che scoprono le loro debolezze di uomini; difensori della libertà che dimenticano il rispetto di valori che neanche la guerra dovrebbe calpestare.
Mohammadi riserva ad ognuno di essi, anche a quei talebani esecrati dall’Occidente e temuti in Afghanistan, uno sguardo che scandaglia i loro sentimenti più profondi, e un posto nella Storia che la cronaca giornalistica ha spesso loro negato.
Mohammad Hossein Mohammadi è nato nel 1975 a Mazar-e Sharif ed è cresciuto in Iran, dove la sua famiglia si era rifugiata alcuni anni dopo la sua nascita. Conseguito il diploma, è rientrato in Afghanistan per studiare medicina a Balkh, ma l’arrivo dei talebani lo ha costretto a rientrare precipitosamente in Iran. Dopo aver attraversato un periodo difficile durante il quale ha lavorato anche come garzone in una sartoria, ha superato il concorso per l’ammissione all’Università della Radio e Televisione iraniana e ha iniziato a dedicarsi alla letteratura. Collabora con diverse riviste letterarie e dirige la Casa della Letteratura afgana. Nel 2010, ormai divenuto uno scrittore affermato, è rientrato a Kabul dove attualmente vive e dove ha fondato una casa editrice per promuovere giovani scrittori. Attualmente è direttore del dipartimento di giornalismo dell’Università Ibn Sina. I fichi rossi di Mazar-e Sharif è la sua prima raccolta di racconti con la quale ha vinto i premi Golshiri, Mehregan e Isfahan. Successivamente ha pubblicato due romanzi, una seconda raccolta di racconti e diversi saggi di storia e di critica letteraria.