Il congedo di maternità è una conquista agrodolce che segna, fin dalla sua istituzione, la vita lavorativa di moltissime donne. Secondo l’Istat infatti la percentuale di donne che lasciano il lavoro alla nascita di un figlio è stabile tra generazioni (dal 15,6 per cento delle donne nate tra il 1944 e il 1953 si arriva al 14,1 per cento di quelle nate dopo il 1973) ma oltre la metà delle interruzioni non derivano da una libera scelta delle donne.
Per molte, la maternità è quindi l’anticamera del demansionamento, e addirittura del licenziamento. In questo contesto, le “dimissioni in bianco” che la proposta di legge approvata dalla Camera a marzo (ma bloccata dal Senato ad Aprile) avrebbe dovuto contrastare, si sovrappongono a un mercato del lavoro che comunque già penalizza le prospettive di carriera delle donne.
Il diritto al congedo di maternità è però problematico per le madri lavoratici nel resto del mondo come in Italia. La sicurezza di un congedo pagato ha storicamente incoraggiato più donne a entrare nel mondo del lavoro a avere ambizioni professionali, ma, allo stesso tempo, sembra poi essere causa di rallentamenti nell’avanzamento di carriera e, a volte, perdita del posto di lavoro.
È sicuramente una questione complessa e l’impatto del congedo di maternità sul lavoro femminile è difficile da misurare. Quello che è invece assodato è che incoraggiare le madri a restare o rientrare nel mondo del lavoro porta benefici sociali ed economici notevoli. Secondo l’Oecd, se la percentuale di donne americane che lavorano fosse uguale a quella degli uomini, il Pil degli Usa potrebbe crescere del 9%, quello francese del 11%.
Ovviamente limitare il congedo di maternità non può essere una soluzione ammissibile e sempre più paesi stanno invece studiando l’estensione dei diritti delle madri lavoratrici ai loro partner. In questo modo infatti il datore di lavoro non avrebbe più nessun incentivo reale o percepito a discriminare più o meno direttamente le lavoratrici madri.
Le decisioni su quale sistema di congedo parentale sia più adatto dipendono principalmente dalla centralità, diversa per ogni Paese, di obiettivi di tipo economico (incremento del tasso di occupazione femminile), demografico (aumento delle nascite) ed etico (eliminazione di discriminazioni indirette di genere). Troppo spesso la cura dei figli viene infatti ancora vista come responsabilità delle madri e non come una questione che dovrebbe riguardare le famiglie e la società. Forme di congedo parentale condiviso possono dunque strumenti molto efficaci per riequilibrare le responsabilità genitoriali, sostenere le famiglie e allo stesso tempo scoraggiare ogni discriminazione di genere.
Riforme volte a stimolare questo tipo di cambiamenti culturali e socio-economici sono quindi necessarie. E proprio per questo motivo dal 5 Aprile 2015 nel Regno Unito inizierà una piccola rivoluzione che vedrà i genitori dividersi un massimo di 52 settimane di congedo parentale (solo 37 settimane retribuite). Le nuove regole si applicheranno anche ai genitori adottivi, alle “coppie di fatto” e naturalmente alle coppie gay.
Ad esempio dopo le 2 settimane di riposo obbligatorio post-parto, le coppie lavoratrici potranno scegliere come usufruire delle restanti 50 settimane di congedo parentale con la massima flessibilità. Questa flessibilità darà ad entrambi i genitori la possibilità di passare tempo col bambino e alle madri, la possibilità di riprendere a lavorare quando preferiscono.
Volendo, la madre potrà scegliere di usufruire di tutte le 50 settimane di congedo oppure stare col bambino per 10 settimane e lasciare che a usufruire delle altre 40 sia l’altro genitore. O magari i genitori usufruiranno del congedo parentale contemporaneamente e potranno stare entrambi col bambino per 26 settimane.
Quando la proposta era stata introdotta nel 2013, non erano mancate le critiche e i dubbi: Davvero le madri vorranno rinunciare a parte del congedo? Vista la situazione economica incerta, i loro partner non troveranno rischioso assentarsi per mesi dal lavoro? E i datori di lavoro, come reagiranno?
Una consultazione pubblica condotta dal governo ha cercato di valutare tutti questi fattori e pesare le implicazioni delle nuove norme. Chi denunciava un attacco a modelli tradizionali ha dovuto constatare che visioni antiquate di ruoli di genere sono minoritarie in Uk e i risultati della consultazione pubblica hanno confermato che – si grazie! – le madri sono favorevoli a una maggiore flessibilità, i loro partner rivendicano la possibilità di poter passare più tempo con i figli e i datori di lavoro dovranno prenderne atto.
Certo non è possibile prevedere nel dettaglio l’impatto sociale, culturale ed economico del nuovo sistema ma esempi come come quello islandese o norvegese dimostrano che politiche a sostegno della genitorialità paritaria hanno un impatto socio-economico di medio periodo estremamente positivo.
Senza dubbio i congedi retribuiti sono essenziali a garantire un equilibrio tra vita lavorativa e famiglia e il congedo parentale condiviso può sicuramente giocare un ruolo cruciale a sostegno dell’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro. Paternità e maternità responsabile, occupazione femminile e il riconoscimento di composizioni famigliari che evolvono, vanno di pari passo e si rinforzano a vicenda.
Certo la totale parità è ancora lontana e i cambiamenti socio-culturali a volte non si manifestano pienamente per decenni, ma in Uk si guarda al 5 Aprile 2015 come a una data importante: quella in cui flessibilità e parità diventeranno una realtà per tanti genitori lavoratori.
Anche in Italia abbiamo visto un primo timido tentativo in questa direzione. Dal 2013 esistono i “congedi papà”. Un giorno di congedo obbligatorio e due giorni facoltativi vogliono dire che si tratta di un’iniziativa poco più che simbolica. I simboli comunque sono importanti ed è pur sempre un inizio – c’è da augurarsi quindi che anche i genitori italiani possano presto usufruire di un congedo parentale pienamente condiviso.
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