Zonaeuro

Quantitative Easing, quanto peserà su Bankitalia (e quindi sullo Stato)

E alla fine anche Draghi ce l’ha fatta: il Quantitative Easing è stato finalmente reso operativo. Ma siamo proprio sicuri che le modalità con le quali verranno acquistati i titoli del debito dei paesi europei siano favorevoli al nostro paese. Infatti, così come è stato lanciato sono convinto che non sia tutto rose e fiori e che le contraddizioni operative non tarderanno a manifestare i propri effetti. Effetti che sono politici nell’immediato ed economici di medio periodo. Politici, perché la divisione dei rischi 80-20 è un chiaro segnale di sfiducia nell’Unione europea, visto che in caso di perdite, queste saranno a carico della Banca d’Italia (e delle banche azioniste) ma in ultima analisi sul bilancio dello Stato (la Banca d’Italia quale ente pubblico non può fallire). Sfiducia che mina alla base il progetto europeo, che da politico si è trasformato in economico. E’ un’altra Europa però quella che abbiamo davanti e francamente non credo che sia quella voluta dai padri fondatori.

L’altra evidente contraddizione, questa di tipo economico-finanziario riguarda la ripartizione delle perdite. La stragrande maggioranza dell’acquisto di Btp (80%) rientrerà infatti nell’attivo della Banca d’Italia e non in quello della Bce. Una ripartizione fatta in questo modo favorisce i titoli di Stato tedeschi (che ne hanno meno bisogno) piuttosto che quelli italiani o spagnoli. Visto che la Bundesbank detiene la maggiore quota della Bce, a lei spetterà acquistare il maggior quantitativo di titoli del proprio paese, quanto di fatto è l’emittente che ne ha meno necessità (certo potrebbe acquistare anche i Btp. Potrebbe).

Favorite nell’immediato saranno sicuramente la banche (anche quelle Italiane), le cui plusvalenze saranno notevoli, visto che venderanno i titoli di Stato acquistati quanto i rendimenti erano più elevati (e quindi i prezzi più bassi) di quelli attuali. Sfavorita sarà però le Banca d’Italia (per l’80%) e quindi, come abbiamo visto in ultima istanza, lo Stato italiano. Vediamo perché.

Nell’ultimo decennio lo Stato italiano ha offerto rendimenti variabili tra il 3% e il 7% (a seconda della scadenza e del momento dell’emissione). Ai rendimenti attuali, i prezzi di quei titoli sono tutti sopra la pari e mediamente offrono tassi reali positivi (il tasso nominale supera il tasso di inflazione). Se l’inflazione torna al 2%, come è negli obiettivi della Bce, per mantenere lo stesso rendimento reale medio occorre che il prezzo dei titoli scenda. Le perdite sono per l’80% a carico della Banca d’Italia (quindi dello Stato). Le plusvalenze immediate della banche superano di gran lunga la perdita di valore pro-quota della Banca d’Italia nei loro bilanci. Certo è sempre possibile che il rendimento reale diventi negativo (come negli anni ’70) creando illusione monetaria. Ma allora non c’era la Bce.

Se poi la Banca d’Italia decidesse di tenere i titoli fino alla loro naturale scadenza, le perdite sarebbero anche decisamente maggiori. Il rimborso dei titoli avviene infatti alla pari, ma il prezzo medio d’acquisto è presumibile avverrà ben sopra la parità, viste le generose cedole offerte rispetto ai rendimenti attuali.

Da non sottovalutare poi che la condivisione della perdite tra la banca centrale e lo Stato crea di fatto una nuovo matrimonio tra la Banca d’Italia e il Tesoro, dopo il divorzio del luglio 1981 a seguito del quale la nostra banca centrale non fu più costretta ad acquistare in asta primaria i titoli invenduti (ma poi lo fece fino al 1988). Anche se in realtà ogni banca centrale è autonoma nella misura in cui lo permette il governo di quel determinato paese, visto che di fatto il governo può regolare la sua attività a seconda dei fini che esso si propone.

A proposito, potrebbe sembrare una battuta, ma se invece di perdite dovessero emergere degli utili (ingegneria finanziaria docet) a chi spetterebbero. Sempre 80-20.