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Verdena, il 27 gennaio esce “Endkadenz”: “E’ un album naturalmente serio”

Alberto Ferrari, frontman del gruppo bergamasco, racconta il nuovo lavoro a Ilfatto.it: "Lo stato in cui abbiamo scritto i pezzi... come dire? Un po' alla Bob Marley. Il rapporto tra noi tre è sempre più bello, siamo migliorati con gli anni; le litigate, anche se più furiose, sono sempre meno. Il modo migliore per ascoltare i due volumi? In cuffia leggendosi i testi. E consiglio di schiarire un po' il suono posizionando le alte ad ore 14"

di Matteo Poppi

A quattro anni dall’acclamato Wow tornano i Verdena. Il 27 gennaio esce il primo volume di Endkadenz. Un album che, all’ascoltatore paziente e attento, rivela una sorprendente ricchezza e ricercatezza di suoni e ritmiche. Sulla matrice rock psichedelica intrapresa con Requiem s’innestano, alternandosi, atmosfere cantautorali e svirgolate funky. Alberto Ferrari, frontman del gruppo bergamasco, lo definisce “naturalmente serio” e ci racconta com’è nato.

Cominciamo dal nome, Endkadenz, perché lo avete scelto?
Io e Roberta avevamo regalato a Luca, per il suo compleanno, un libro sulle percussioni; conteneva immagini che ci piacevano per il disco. Sfogliandolo siamo incappati in un racconto di Mauricio Kagel, compositore di musica classica estrema degli anni ’30. Lo spettacolo di Kagel prevedeva una mega rullata su sei timpani, all’ultimo colpo però il timpano si squarciava e il musicista ci cadeva dentro con tutto il corpo. Questa mossa finale è l’Endkadenz. Penso sia anche una buona metafora dei tempi moderni. Inizialmente giravano anche altri titoli, ma quando è arrivato Endkadenz li ha spazzati via tutti, aveva qualcosa di ritmico.

Com’è nata la copertina?
La copertina l’abbiamo fatta io e Luca insieme al nostro grafico, Paolo de Francesco. Volevamo somigliasse a una locandina cinematografica e fosse in odore di bolero; non ricordo bene quale film avessimo in mente… forse Ultimo Tango A Parigi. La scelta è stata sofferta. Volevamo restituisse un effetto un teatrale. Penso che il risultato richiami anche la Pop Art; certi dipinti di Warol hanno lo stesso tipo di contrasto.

Come avete registrato Endkadenz?
Noi registriamo tutto su nastro, in analogico, spartendo il master. Il nastro però a un certo punto l’abbiamo cambiato, era vecchissimo. Per un anno quindi non abbiamo potuto lavorare. Anche per questo che è uscito un album chilometrico. Inizialmente doveva essere un disco live, e fondamentalmente lo è: praticamente tutte le basi – basso, chitarra e batteria e a volte anche le tastiere suonate dal nostro amico Chaki – sono live. Le sovraincisioni sono state la parte più divertente, è il momento in cui modelli un pezzo e lo fai diventare un’altra cosa . E forse, come al solito, con le sovraincisioni abbiamo esagerato andando a modificare l’idea originaria di un disco puramente live. Suonarlo dal vivo, sarà difficilissimo.

Come ve la caverete, quindi, dal vivo?
Abbiamo preso un quarto elemento, con lui stiamo riarrangiando il tutto in modo che funzioni anche meglio del disco. È un ragazzo di Bergamo, l’abbiamo trovato mettendo un annuncio su internet. Ci siamo presentati come una band qualsiasi che cercava un componente. Sono arrivati anche personaggi abbastanza strani. Alcuni, sinceramente non so come, sapevano che eravamo noi, altri non ne avevano idea. C’è chi si è agitato parecchio.

Con quale logica avete suddiviso i brani tra i due volumi?
I pezzi sono musicalmente molto diversi tra loro. Quelli nati al piano, nel periodo in cui non c’era la macchina per registrare, hanno però un mood particolare. Per un breve periodo pensavamo di far due dischi, uno elettrico e uno acustico. Poi abbiamo abbandonato il progetto e e abbiamo deciso la scaletta in una sola settimana, a novembre quando tutte le traccie erano pronte. Inizialmente Luca ha separato i brani per ritmo, poi abbiamo suddiviso per note e alla fine per atmosfere; a quel punto abbiamo cercato di dividerli in maniera equilibrata. Il secondo però, a livello di atmosfere, è risultato diverso dal primo. Da parte della casa discografica non c’è stato nessun consiglio; magari ce ne fossero stati, ma era una scaletta difficile da attuare. Abbiamo fatta tutto noi, forse potevamo fare di meglio. Per me è quasi più bello il secondo volume, per questo sono un po’ arrabbiato.

Quali consigli per chi si approccia ad Endkadenz per la prima volta?
Sarebbe da ascoltare in cuffia leggendosi i testi – mi dicono che alcune parole non si capiscono e questo mi dispiace. Avendolo registrato nelle nostra saletta che è un buco, consiglio di schiarire un po’ il suono posizionando le alte ad ore 14.

Lo stilema pop prevede che la voce sia preponderante. Mi sembra che da questo punto non vi siate piegati allo standard.
Non è un fatto di piegarsi o meno, semplicemente quando faccio musica non penso a queste cose. Si pensa troppo ai livelli di volume, per me questa regolazione è perfetta. Penso che Endkadenz sia in assoluto il disco in cui la voce viene più fuori. Il timbro scuro e la distorsione della voce mangiano un po’ le parole è vero, ma è una questione di intellegibilità del suono, non di volumi. La voce tende a mischiarsi con la distorsione generale presente nel disco, ma è assolutamente voluto. Volevamo una situazione corale.

Pubblicherete mai un album in inglese – lingua nativa delle tue melodie vocali?
L’idea di fare un disco in inglese non mi fa impazzire, dovrei passare del tempo all’estero per migliorare l’accento. Questa volta però, aiutati da amici madrelingua, abbiamo registrato alcuni brani anche in inglese. Vedremo se utilizzarli. Il fatto è che mi piacerebbe che anche all’estero ci ascoltassero in italiano. Gruppi italiani che cantano in inglese mi suonano finti; Elisa o i Jennifer Gentle no, ma sono casi rari.

Qual era il vostro stato mentre componevate Endkadenz?
Io ho avuto un figlio, il secondo; non è la botta del primo ma è comunque una bella botta. Lo stato in cui abbiamo scritto i pezzi invece… come dire? Un po’ alla Bob Marley. Il rapporto tra noi tre è sempre più bello, siamo migliorati con gli anni; le litigate, anche se più furiose, sono sempre meno e quando non litighiamo comunichiamo bene. Suonare con mio fratello Luca è facilissimo: siam cresciuti insieme e con gli stessi ascolti, quando suoniamo siamo una sola macchina. Anche Roberta, negli ultimi anni, è entrata a far parte di questa macchina. Facciamo delle bellissime jam… un giorno mi piacerebbe fare dei concerti solo d’improvvisazione, vengono fuori cose interessantissime.

È da Requiem che sei tu ad occuparti della produzione. Perché questa scelta?
Abbiamo paura si tocchino le note o l’attitudine, è per questo che facciamo fatica a trovare prsoduttori. Quello che facciamo, per noi, va bene così. Non c’è altro da aggiungere, ogni dinamica è ben studiata. Nell’album ci sono però due tracce, una per volume, prodotte da Marco Faggiolo. Gli abbiamo chiesto di occuparsi più del suono che della produzione in sé. Lui, da bravo produttore, ha capito che non c’era molto da toccare, solo da trovare un bel suono.

Perché due volumi separati e non un doppio, come Wow?
A me l’idea di un altro doppio andava bene, ma la Universal stavolta ha voluto provare un’altra formula. Sotto questo punto di vista non c’è stato niente da fare, han deciso loro. Secondo me non è nemmeno una brutta decisione, visto che ogni volume dura circa sessanta minuti. Centoventi muniti sarebbero stati forse un po’ troppi; funziona meglio così… l’unico problema è che i due volumi escono a troppa distanza l’uno dall’altro.

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