Solo intendendo il diritto come “tecnica reversibile” (A. Supiot), e non come tecnica di progressiva acquisizione di tutele e diritti, possiamo capire in che modo, nel tempo, il lavoro gratuito sia passato da fenomeno opportunamente contrastato dal diritto del lavoro a fenomeno dapprima tollerato, purché contenuto entro limiti ben circoscritti e giustificati da legami di solidarietà (il lavoro dei congiunti nell’impresa familiare, o dei religiosi nell’ambito delle congregazioni), e successivamente caldeggiato dal legislatore di Expo 2015.
Si tratta di un’operazione che mira a qualificare il lavoro gratuito di nuova generazione; a questo riguardo però il dato normativo nazionale ci offre spunti interessanti.
Da un lato, lo stesso legislatore del codice civile, sin dal 1942, ha individuato, con l’art. 2094 c.c., la ratio “necessaria” del lavoro subordinato nello scambio di prestazione lavorativa contro retribuzione, quest’ultima ben ancorata al dettato normativo dell’art. 36 della Cost., secondo cui la retribuzione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e, in ogni caso, deve garantire al medesimo lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Dall’altro lato, l’istituto del volontariato è anch’esso disciplinato da una legge ormai risalente agli anni Novanta, la legge n. 266/1991. Essa, all’art. 2, comma 1, fornisce una puntuale definizione di attività di volontariato: “Per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”. Inoltre, al secondo comma dell’art. 2, la medesima legge del 1991 dispone che “L’attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario”.
Quindi, nel caso del lavoro gratuito al tempo di Expo i due articoli sembrano entrare in contraddizione: da ciò che si evince leggendo alcuni bandi e iniziative per il reclutamento dei volontari, non vi è dubbio che la società Expo 2015 non potrà dichiararsi quale ente solidaristico, anche laddove facesse ricorso ai nuovi “caporali” del lavoro gratuito, vale a dire le organizzazioni di volontariato; le stesse mansioni che svolgeranno i volontari non possono essere concepite come attività “spontanee” e “gratuite”. Infatti, secondo quanto indicato all’allegato 5 dell’accordo sindacale del luglio 2013, le mansioni dei volontari saranno: accogliere i visitatori all’ingresso, indirizzare verso le biglietterie e le aree di prenotazione, dare informazioni, distribuire materiali; cioè tutti i compiti della tradizionale assistenza fieristica.
Di più: alcuni bandi “Volontari per Expo” promossi dal governo, tramite del Servizio Civile Nazionale, o dal Comune di Milano, per mezzo di una dote ad hoc, richiedono ai candidati il requisito della disoccupazione, oltre che un’età compresa tra i 16 e i 35 anni. Infine, in questi bandi si parla di concedere ai volontari – oltre al cappellino e alla pettorina di riconoscimento e, se si è fortunati, un buono pasto – un’indennità mensile di partecipazione non ben specificata, comunque esorbitante i limiti un mero rimborso spese.
Non molti anni fa la Corte di Cassazione si è pronunciata riconoscendo un rapporto di lavoro subordinato oneroso – e non di mera attività di volontariato gratuita come si voleva sostenere – nel caso di un operatore sindacale che aveva ricevuto di un emolumento economico, da parte del sindacato, esorbitante il mero rimborso spese.
Questo significa che nel far west dell’azione legislativa e di governo di Renzi i “vecchi ermellini” della Cassazione potrebbero rimettere un po’ d’ordine… Almeno per una volta, conviene che l’Italia non sia un “paese per giovani”.