Ritratto a puntate del candidato presidente che piace a Berlusconi e a una parte del Pd. Da socialista unitario a giolittiano, da anti-Craxi a pro-Craxi, da scalfariano (nel senso di Scalfaro) a scalfariano (nel senso di Scalfari), fino a berlusconiano, dalemiano e, poi, solista. Tutte le tappe di un politico che, in 40 anni di politica e 30 di Parlamento, ha sempre mutato alleati e schieramenti
Questa non è una biografia, ma un ritratto collettivo, perché il biografato è multiplo. Tutti lo chiamano Giuliano Amato, ma – tralasciando l’ossimoro del cognome – è più corretto parlarne al plurale: i Giuliani Amati. Pablo Picasso conobbe soltanto quattro periodi: quello blu, quello rosa, quello del cubismo analitico e quello del cubismo sintetico. Nel nostro caso, c’è ben di più e di meglio. C’è l’Amato socialista unitario amico del Pci e della Cgil. C’è l’Amato giolittiano che nel 1976, dopo la svolta dell’hotel Midas con l’ascesa di Craxi a segretario, lo chiama “cravattaro” e “autocrate”. C’è l’Amato craxiano anticomunista. C’è l’Amato scalfariano (nel senso di Scalfaro) e filocattolico. C’è l’Amato scalfariano (nel senso di Scalfari) e laico. C’è l’Amato filoberlusconiano. C’è l’Amato dalemiano. C’è l’Amato neoulivista. C’è l’Amato solipsista che sta solo con se stesso. C’è l’Amato equivicino che sta con tutti. C’è l’Amato montiano e anticasta che insegna come tagliare i costi della politica in cui sguazza da mezzo secolo. C’è l’Amato napolitaniano che si parcheggia alla Consulta in attesa di ereditare il trono di re Giorgio. C’è l’Amato che ogni dieci anni si ritira dalla politica e c’è l’Amato che ogni volta vi rientra senza mai esserne uscito, candidato a tutto e assiso dappertutto, anche se finge sempre di non essere stato da nessuna parte.
Il professionista a contratto. Craxi, che lo conosceva bene, lo definì “un tecnocrate, un ottimo professionista che lavora a contratto… un Giuda, un opportunista che strisciava ai miei piedi e ora striscia a quelli degli altri per salvarsi la pelle”. Fu quando il suo ex Tigellino cominciò a far finta di non averlo mai conosciuto. Un uomo per tutte le stagioni, che in ciascuna ha lasciato segni e impronte indelebili. Non digitali, però: infatti è uno dei due o tre ex ministri socialisti mai sfiorati da inchieste giudiziarie. Nato a Torino il 13 maggio 1938 da una famiglia di origini siciliane che presto si trasferirà in Toscana, Amato studia al liceo classico Niccolò Machiavelli di Lucca. Poi s’iscrive e si laurea in Giurisprudenza alla Normale di Pisa, aggiungendo nel 1962 un master alla Law School della Columbia University. Dal 1975 insegna Diritto costituzionale comparato alla Sapienza di Roma. Politicamente nasce nel Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria), poi trasloca armi e bagagli nel Psi come testa d’uovo della corrente di sinistra di Antonio Giolitti. Nel 1978 fonda con Giorgio Ruffolo il gruppo “Progetto Socialista”. E nel 1979, sempre da sinistra, tuona contro le “forme degradanti” del dibattito interno dopo lo scandalo delle tangenti arabe Eni-Petromin. La questione morale è talmente bruciante che Franco Bassanini e altri lasciano il partito, nel frattempo agguantato da Bettino Craxi. Ma lui no. Anzi, diventa a poco a poco il consigliori più ascoltato di Bettino, che solo pochi anni prima chiamava “il cravattaro”, scalando a passo di marcia tutti i gradini fino al vertice del partito.
Il servo serve. Il 7 luglio 1981 è in partenza per un viaggio di studi a Washington e teme che, insomma, lontan dagli occhi lontan dal cuore di Craxi (con annessi sorpassi di altri arrampicatori garofanati). Così prende carta e penna e, su carta intestata del direttore della Facoltà di Scienze politiche della Città Universitaria di Roma, gli scrive una lettera strisciante alla Sir Biss, per mettersi a sua completa disposizione, anche dall’altra sponda dell’oceano, e mendicare un incarico purchessia, anche di “portavoce”, per “rendermi utile” e “farmi usare, se serve”. E, già che c’è, vellica le fregole ducesche del Capo facendogli balenare quel progetto di Repubblica presidenziale che lui stesso ha lanciato un anno prima dalle colonne di Repubblica.
“Caro Bettino, vorrei proprio poterti parlare (ti cercherò attraverso Serenella (Carloni, la segretaria di Craxi, ndr), per due questioni: – Una personale: ormai si avvicina il tempo della mia partenza per Washington (25 agosto)”. Starò lì – prosegue Amato – diversi mesi: per rendermi utile al partito, non potrei avere una qualche investitura, che mi permetta di avere rapporti per conto del Psi, di farmi usare – se serve – come tramite, portavoce etc? – Una istituzionale: da tempo, prima per la verità delle elezioni francesi, arrivano da varie parti sollecitazioni a riprendere il discorso presidenziale. Se Craxi ci sta – sento dire – il polo laico lo aggregherà con questa carta. Riflettici con calma. Ma definiamo una linea. A presto. Giuliano”.
Zampino & zampini. Nel marzo 1983 esplode a Torino la prima Tangentopoli d’Italia. Il sindaco comunista Diego Novelli riceve la denuncia di un imprenditore costretto a pagare tangenti e lo accompagna alla Procura della Repubblica. Finiscono in carcere il faccendiere Adriano Zampini, il suo amico vicesindaco Enzo Biffi Gentili col fratello Nanni, il capogruppo comunista in Regione Franco Revelli, mentre il suo collega del Comune, Giancarlo Quagliotti è indagato assieme a tanta altra bella gente del Psi, del Pci e della presunta opposizione Dc. Craxi tuona subito contro “la deliberata ferocia delle procedure e l’inumana spettacolarità che mi auguro sia stata soltanto casuale, viste le conseguenze di eccezionale gravità causate alle istituzioni locali”. E nomina commissario del partito Giusy La Ganga, il quale però finisce subito pure lui sott’inchiesta. Così Bettino – che sta per diventare presidente del Consiglio – manda sotto la Mole il professor Amato, al suo primo incarico ufficiale. Per cominciare, Amato fa un cazziatone a Novelli. “Mi rimproverò – ricorda l’ex sindaco rosso – di non avere ‘risolto politicamente la questione’ anziché andare dai giudici”. Cioè di non averlo insabbiato. Lui la “soluzione politica” – come dimostrerà in seguito – ce l’ha nel sangue. Piero Fassino, giovane e smilzo segretario della Federazione torinese e membro della Direzione nazionale del Pci, si presenta il 7 aprile al Comitato centrale e spara a zero sulla predisposizione di certi socialisti a rubare. Amato gli risponde per le rime, alla maniera craxiana: “Abbiamo sopportato con pazienza, per giorni, le dichiarazioni che Fassino ha fatto sul nostro partito, derivando dalla nostra natura e dal nostro modo di fare politica le degenerazioni su cui inquisisce la magistratura. Ora la pazienza è finita e corrono il rischio di finire anche il garbo e la riservatezza con cui abbiamo trattato sin qui i protagonisti comunisti (e ce ne sono a vario titolo) di questa vicenda. Dico solo, per ora, che Fassino, mettendo in discussione la nostra dignità di interlocutori politici, ha trovato la via migliore per ritardare la conclusione delle trattative in corso (per rifare la giunta Pci-Psi, ndr). Noi potremo a questo punto rifiutarci di andare all’incontro con il Pci. Se all’incontro non ci verrà formalmente assicurato che Fassino ha espresso sul Psi opinioni puramente personali, la trattativa finirà lì… Le strade della governabilità sono sempre più di una”. Come dire: se il Pci non la smette di fare del moralismo, ci rivolgiamo alla Dc. Fassino replica a stretto giro: “Con vivo stupore ho letto le dichiarazioni del professor Amato. Trovo francamente incomprensibile che si pretenda di sindacare e censurare un intervento fatto in qualità di membro del Comitato centrale. Non riesco a capire il senso di questa gratuita polemica. Sarei lieto di trovare nei socialisti torinesi lo stesso spirito di autocritica che contraddistingue il comportamento mio e dei comunisti torinesi”. Di autocritica, ovviamente, non ci sarà traccia, e ben presto Novelli dovrà lasciare il campo a un pentapartito, guidato ovviamente da un socialista, Giorgio Cardetti.
Il testa-coda. Il 27 giugno 1983 si vota per le elezioni politiche nazionali. E Amato, candidato per la prima volta alla Camera, risulta il socialista più votato in Piemonte: quasi 33 mila preferenze, al primo colpo. Di quella campagna elettorale si parlerà a lungo, a Torino. Perché l’irrompere di Amato, con la diretta investitura di Craxi, semina lo scompiglio nei giochi correntizi del Garofano subalpino. Fino ad allora comandano La Ganga per i craxiani e Antonio Salerno per la sinistra interna. Si tratta di trovare un valido supporter per la campagna del professor Amato. Che, in seguito a forti pressioni del vicesegretario Claudio Martelli, viene “adottato” da uno dei signori delle tessere socialisti: Francesco Coda-Zabet, altro esponente della sinistra con solidi agganci nelle autostrade, nella sanità e nelle banche. “Per quella prima campagna di Amato – ci raccontò anni fa un alto esponente del Psi dell’epoca, che ci chiese l’anonimato – fu preventivata una spesa di 1 miliardo di lire. E non fu facile trovare tutto quel denaro. Ma chi lo fece si svenò volentieri, sperando che Giuliano si rivelasse un buon ‘investimento’. Gli amici di Coda riuscirono a racimolare 700 milioni. Gli altri 300 li procurò l’entourage di Giuseppe Rolando, assessore socialista ai Trasporti, che però di suo non aveva mai una lira ed era solito ricorrere a sistemi di approvvigionamento, diciamo, ‘alternativi’…”. Le indagini del giudice istruttore Sebastiano Sorbello dimostreranno che Rolando prendeva tangenti sugli appalti comunali dei trasporti, e si faceva pure finanziare dai cambisti di Saint-Vincent rilasciando in garanzia assegni a vuoto o postdatati.
Amato dichiarerà di aver speso, per quella campagna, 50 milioni di lire. Ma il nostro interlocutore, l’Anonimo Socialista, aggiunge un racconto di seconda mano che, se fosse vero, sarebbe davvero avvincente: “Appena eletto, Amato volò a Roma per diventare sottosegretario alla presidenza del Consiglio del nuovo governo Craxi. E quasi subito si dimenticò degli amici che l’avevano aiutato, lasciandoli pieni di debiti. Coda-Zabet e Rolando, infuriati, decisero di chiedergli indietro i soldi. Partirono per Roma e gli diedero appuntamento in un ristorante. Quando Amato arrivò a mani vuote, Coda perse la pazienza, impugnò una sedia e cominciò a rotearla per aria, minacciando di colpirlo, mentre Rolando tentava di calmarlo e Amato guadagnava rapidamente l’uscita. I due se ne tornarono a Torino con un pugno di mosche in mano”. (1 – continua)
Da Il Fatto Quotidiano del 21 gennaio 2015