Scrivo a quei ragazzi che sabato scorso hanno messo a ferro e fuco la città di Cremona. Non ero presente. Ero dall’altra parte dell’Italia. Non ho visto con i miei occhi quello che è accaduto ed in genere se non ho la possibilità di toccare con mano non mi permetto di schierarmi da nessuna parte.
Ho visto le fotografie scattate da alcuni quotidiani e quelle fatte dai cittadini di Cremona (pubblicate sul quotidiano “La Provincia.it”). Dietro quei passamontagna calati sui vostri volti ho intravisto occhi giovani, sguardi di trentenni o forse meno. Ho guardato le fotografie degli scontri: la città di Stradivari sabato sembrava essere in guerriglia. Ve la siete presa con le vetrine delle banche, delle assicurazioni, con i bancomat, con l’ufficio della Regione, con la polizia locale. Avete scritto sui muri della città: “Sindacati amici dei padroni”. Avete assaltato le strade. Più di ogni altra immagine mi è rimasta in testa la fotografia di voi schierati con caschi e passamontagna e un bastone in mano. Avete terrorizzato la città. E come dobbiamo chiamare chi incute terrore tra la gente, chi paralizza una comunità, chi mette paura? Doveva essere una manifestazione contro il fascismo, l’avete trasformata in un’iniziativa violenta. E’ inaccettabile. Ma oggi non possiamo fermarci solo a condannarvi. Tra voi tra qualche anno ci potrebbe essere qualche mio alunno. E allora mi chiedo: che è successo? Perché dei giovani scendo in piazza a Cremona e spaccano vetrine di tutto ciò che è “istituzione”?
Ho provato a parlare con una persona che ha sostenuto, pur non partecipando, la manifestazione. Mi ha detto: “Penso che i giornali abbiano fatto il solito gioco, non mi pare una città terrorizzata dai manifestanti, quanto più dai nuovi gruppi neofascisti. E comunque i partigiani non hanno combattuto a parole. Sei contro pure i partigiani? Non trovo furbo rompere una vetrina perché ti danno dieci anni per devastazione e saccheggio ma rompere una vetrina è un atto simbolico”.
Io non tollero la violenza e nemmeno ogni forma di terrorismo ma so che voi siete i figli di una generazione che ha fallito. Siete i figli di quelli che lavorano in quelle banche, di quelli che nel sindacato hanno fatto carriera senza mai lasciarvi spazio per esprimervi, per esserci. Siete nati in un’epoca dove nella politica non avete trovato un luogo dove dare voce alle vostre battaglie: dove vi hanno lasciato fuori dalle sedi del partito perché eravate troppo idealisti, perché sognavate un mondo più uguale. Dovevano “andare avanti” i vostri padri. In quelle scritte contro le istituzioni, contro le organizzazioni sindacali leggo tutta la vostra rabbia contro chi vi costringe a essere precari a vita, contro chi non vi ascolta. Tolto il passamontagna lo so che siete studenti universitari, uomini che cercano un lavoro o che vanno in fabbrica. Parlate di partigiani, di lotta. Tra qualche anno sarete dei padri. Non oso etichettarvi perché in quelle spranghe so che c’è il vostro urlo. Se oggi siete così violenti, la generazione dei vostri padri ha delle responsabilità. Chi fa l’educatore, chi amministra, chi ha ruoli nel partito, nel sindaco oggi ha il dovere non solo di condannare la violenza ma anche di mettersi una mano al petto, riconoscere le responsabilità della politica, della scuola, della Chiesa.
Anche questi giovani sono nostri figli, nostri allievi. Figli di padri che hanno sbagliato.