Cultura

‘American Sniper’, il cecchino Clint ricorda ‘La tregua’ di Primo Levi

La guerra è già cominciata. Dalla guerra non si torna. Guerra è sempre. Questo è il film American Sniper di Clint Eastwood. L’ultima frase non c’è nel film. Appartiene al Greco, personaggio del libro di Primo Levi La tregua, che la dice come saluto ai compagni di prigionia, una volta liberati dal campo. Ma è come se regista, attori e personaggi veri che hanno ispirato il film American Sniper la sapessero e l’avessero pronunciata anche loro. Come ne La tregua questa non è esaltazione della guerra, sono le cose così come sono. Fate caso all’inizio: Chris Kyle (è il personaggio vero e il nome dell’eroe nel film) si è arruolato nei Navy Seal (corpo speciale per persone con corpi speciali) non contro qualcuno, che non sa, non conosce, non immagina, non odia. Ma per qualcuno, il suo Paese che è naturale difendere. Infatti la sposa è bella e il bambino è in arrivo. Ed è un caso che un gravissimo attacco all’America (l’11 settembre) avvenga nello stesso tempo. In un istante Kyle, che è profondamente in pace nella storia d’amore e nel rapporto col figlio che aspetta, entra, come da una stanza all’altra, dentro la guerra. In questo punto del film c’è un importante messaggio che il regista vuole dare e che è più di una intuizione, è una constatazione: la guerra c’è già. Il racconto (seguendo la nostra tradizionale immagine della vita) ha un poco distorto i fatti, all’inizio, facendoci vedere prima l’uomo che si prepara a fare bene il suo dovere se necessario, poi l’uomo, amante, e padre fra poco, che però deve andare in guerra. Ovvero, deve tornare in guerra. Perché, come si vede fra poco, e come dice il Greco a Primo Levi subito fuori dai cancelli di Auschwitz, quando tutto sembra l’inizio della pace, “guerra è sempre”. L’espediente di Eastwood, per stare con noi spettatori che crediamo in un lunga pace e brevi guerre, ci mostra ancora una volta le orrende immagini dei grattacieli trapassati dagli aerei suicidi capaci di un danno immenso, come se fosse un improvviso capovolgimento della realtà. Un momento fa tutto bene. Un istante dopo, per malefica volontà, tutto male.

E ci vorrà una disumana fatica e un sacrificio immenso per tornare alla “normalità” del prima, mettendo il prezzo delle vittime innocenti a carico degli assassini. Ma il passaggio da un mondo di pace, di mogli amorevoli e di culle pronte, alla postazione di guerra che Kyle terrà in tutto il film, è troppo rapida per essere la cronaca del dramma subìto dagli Stati Uniti con l’attacco alle Torri. Il regista di questo film ci sta dicendo di più. La sequenza è vera. Ma la guerra è più vera, nel senso che è la sola cosa solida e duratura che esige il tuo corpo, la tua mente, il tuo coraggio e anche la tua freddezza e il meglio delle tue qualità professionali e della buona organizzazione della tua vita interiore. So che sto correndo il rischio di dire che Clint Eastwood ha esaltato la guerra e in particolare il massacro che è stato la guerra in Iraq. Non è vero, non è quello che penso. Provo a dirlo in un altro modo. American Sniper sono tre film: un film di guerra (con le migliori qualità del genere: sappiamo con chi stare e troviamo ragionevole e necessario l’agire); un film di destino: la vita va in tanti modi, e se il torrente in cui ti sei buttato ti porta alla guerra, non ti resta che affrontare la guerra, senza distinzioni tra il bene e il male e una precisa osservanza delle regole d’ingaggio; un film d’America, perché, nel bene e nel male, un eroe preciso, calmo, malinconico, competente e neutrale, lo puoi trovare solo nel profondo del Texas. Ho detto una parola inconcepibile in questo contesto, “neutrale”, e la devo spiegare. Il Navy Seal Chris Kyle non sta combattendo, dentro la guerra una sua guerra. E ha, come impegno esplicitamente preso fin dall’inizio (della vita, si direbbe, non della guerra) quella della miglior difesa professionale della sua patria e della sua famiglia. Essenziali sono le due scene in cui l’obiettivo dentro l’arma altamente specializzata del cecchino sono due diversi bambini. Uno sta per lanciare una bomba e bisogna abbatterlo, cosa che avviene con precisione impeccabile, senza un cenno di reazione del regista o del protagonista. Il secondo bambino è più piccolo, stenta a reggere il bazooka, e il Navy Seal Kyle mormora “lascialo cadere, lascialo cadere”. Per confermare la regola. Non spari a un bambino per quanto nemico, se non porta un bazooka. Anzi non vuoi farlo per naturali ragioni umane e speri di non farlo. Il bambino lascia cadere la micidiale arma troppo pesante e scappa. Kyle non spara, sempre in silenzio. Come dire, è equidistante dal male e vi entra solo se necessario e per dovere professionale. Come tale non ha sentimenti, neppure il patriottismo. Piuttosto la sua condizione umana si manifesta nella solidarietà al gruppo. Non si abbandona nessuno, mai. È la regola dei film di guerra, s’intende. Ma il professionista perfetto ha il suo momento di estremo equilibrio e di estremo squilibrio mentre deve decidere di colpire (e lo colpisce, eliminandolo) un cecchino avversario, troppo pericoloso e troppo lontano, commettendo insieme un prodigio (colpisce con esattezza alla impossibile distanza di un miglio) e un grave errore: rivela la sua posizione e quella di tutti i suoi compagni. E il suo salvarsi, tra tante perdite, appartiene più al film del destino che al film di guerra.

Ma ecco come riassumere la storia: non c’è interruzione nella narrazione di guerra. Persino l’inquadratura nella quale il protagonista ritorna per sparare con precisione dopo brevi interruzioni di vita familiare, è la stessa, esattamente la stessa, come tornare in fabbrica. La pace è vaga, nebbiosa, breve, unilaterale, infida. Il maschio è un genere potente, esclusivo ed equanime. Uccide se necessario, e lo fa con bravura. Quando lo togli di lì è stordito, buono, incline ad aiutare. Ma, in piena pace (una pace a cui il regista, il protagonista, il film non credono non perché vogliono la guerra ma perché è il risultato della loro escursione nel giro vita-morte) un altro soldato lo uccide, uno malato che Kyle cercava di aiutare. Clint Eastwood ha fatto uno dei suoi film più freddi e più belli. Infatti, invece di un racconto, ci dà le riflessioni di un saggio. E benché lui sia un narratore straordinario e sia considerato un conservatore, questa è una storia dura senza punti di appoggio o conforto, non Dio, non la patria, non la famiglia. In qualunque momento, la guerra è già cominciata. E continua. La sfida è accettarne le regole. Il resto è destino.

il Fatto Quotidiano, 28 Gennaio 2015