Il governo Craxi, nato nel 1983, tramonta nel 1987. In quel lustro Giuliano Amato è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e consigliere economico-giuridico del premier. E i risultati non si fanno attendere. Nel 1983 il debito pubblico è di 234.181 milioni di euro. Nell’84 è già salito a 284.825, nell’85 a 346.005, nell’86 a 401.498 e nell’87 a 460.418. Raddoppiato nel giro di cinque anni. Siccome il talento va premiato, il Dottor Sottile viene promosso ministro del Tesoro nei governi Goria (di cui è pure vicepremier) e De Mita, dal 1987 all’89. E in quel biennio il debito pubblico galoppa a 522.731 nel 1988 e a 589.995 nel 1989. Un trionfo. Sotto la regìa del Dottor Sottile, De Mita è costretto alla più sanguinosa stangata mai vista in Italia fino ad allora: roba da 49 mila miliardi, per colmare il buco che lo stesso Amato ha contribuito a scavare fino al giorno prima. Nel 1989, con l’ascesa di Andreotti a Palazzo Chigi, Craxi richiama il suo Tigellino in via del Corso: vicesegretario vicario (un po’ più vicesegretario dell’altro, Giulio Di Donato) e grande architetto della “Grande Riforma” costituzionale. Lui, nel maggio 1989, dalla tribuna del 45° congresso di Milano, quello sormontato dalla piramide del geometra Panseca fra “nani e ballerine” (copyright Formica), rilancia il suo vecchio pallino della Repubblica presidenziale, con il capo dello Stato eletto dal popolo. Un trono su misura per Bettino.
Eterna fedeltà. Il potere di Amato nella pochette di Craxi è enorme e, inevitabilmente, suscita invidie e rancori fra i “compagni”. Qualcuno tenta di seminare zizzania fra i due, insinuando che l’agile Topolino amoreggi in segreto con Scalfari e il gruppo Espresso–Repubblica-De Benedetti, che sta per incrociare le armi con il filocraxiano Berlusconi nella guerra di Segrate per il controllo della Mondadori. Il 27 luglio 1989 Amato prende carta e penna e, su carta intestata della Camera, scrive una lettera a Bettino per mettersi al suo servizio, giurargli eterna fedeltà e smentire le voci sul suo presunto flirt con Scalfari e quella che Craxi chiama “la nota lobby”. Ma anche per fargli sapere, allusivo come sempre, che il ruolo di vicesegretario gli va stretto e pensa a “cosa fare da grande”.
“Caro Presidente, ti sono molto grato per la tua offerta rinnovata di collaborazione. Sarà al centro della riflessione su cosa dovrò fare da grande. Vorrei intanto pregarti di riflettere tu su una cosa, di cui mi giungono voci (imprecise, ma inevitabilmente tali quando ci sono dubbi e sospetti non affrontati apertamente e lasciati alla perfidia dei corridoi; è stato comunque De Michelis a parlarmene). Cancella l’idea che io sia legato al giro di ‘Repubblica’. È infondato. Solo con i loro giornalisti economici, come con quelli degli altri, ho avuto rapporti da ministro del Tesoro. Per il resto, ti ho sempre detto tutto: sai che sono amico di Vittorio Meana ([Vittorio Ripa di Meana, storico avvocato civilista del gruppo Espresso e consigliere di Carlo De Benedetti, dal caso Mondadori in giù, ndr] che, grazie anche alla mia amicizia, è passato al voto socialista); sai che ho incrociato Scalfari a qualche rara cena, quasi sempre e cioè due o tre volte a casa di Elisa Olivetti. Non c’è altro. E chiunque capisce che Scalfari, dopo avermi bistrattato quando ero al Tesoro, ha ora usato disinvoltamente la mia uscita per criticare te. Pensa che anche Rodotà mi si è ridimostrato improvvisamente amico. Se le cose non fossero così, non avrei rinunciato a 48 milioni l’anno e una rubrica che mi piaceva su ‘L’Espresso’ dopo l’affare Malindi [lo scoop di ‘Repubblica’ su Claudio Martelli fermato a Malindi con qualche spinello in tasca, ndr]. Non ho altro da dire su un problema inesistente. Ti auguro solo di avere dagli altri la lealtà assoluta che hai sempre avuto da me e che continuerai ad avere, insieme a una sicura amicizia, qualunque cosa io abbia a fare da grande. Tuo Giuliano”.
Il silenzio è d’oro. Nel 1990 c’è di nuovo puzza di mazzette, e tanto per cambiare sono targate Psi. Questa volta a Viareggio, sull’appalto per la costruzione della nuova Pretura: una stecca di 270 milioni di lire in cerca d’autore, cioè di destinatario. L’unica certezza è che la mazzetta transita per le mani dei socialisti locali per poi approdare, almeno in parte, nelle casse romane del Psi. I compagni viareggini pensano bene di scaricare la colpa sul morto: il senatore ed ex sottosegretario Paolo Barsacchi, scomparso quattro anni prima, che non c’entra nulla, ma non può smentirli. Purtroppo per loro, è sopravvissuta la vedova, Anna Maria Gemignani, che non ci sta e fa sapere che non accetterà che il caro estinto faccia da capro espiatorio dei compagni vivi. Insomma minaccia di raccontare come sono andate veramente le cose, con nomi e cognomi. Il 21 settembre riceve una chiamata: è Amato. Che, non trovandola in casa, le lascia un messaggio sulla segreteria telefonica. Lei lo richiama poco dopo e, intuendo il motivo della telefonata, aziona il registratore. Infatti, per 11 minuti e 49 secondi, il vicesegretario del Psi la esorta all’aurea virtù del silenzio, con la sua inconfondibile vocetta melliflua. Amato: “Anna Maria, scusami, ma stavo curandomi la discopatia, ma vedo che questa situazione qui si è arroventata”.
Gemignani: “Ti ascolto”.
A: “La mia impressione è che qui rischiamo di andare incontro a una frittata generale per avventatezze, per linee difensive che lasciano aperti un sacco di problemi dal tuo punto di vista… Troverei giusto che tu direttamente o indirettamente entrassi in quel maledetto processo e dicessi che quello che dicono di tuo marito non è vero. Punto. Non è vero. Ma senza andare a fare un’operazione che va a fare quello non è lui, ma è Caio, quello non è lui ma è Sempronio. Hai capito che intendo dire? Tu dici che tuo marito in questa storia non c’entra. Questo è legittimo. Ma a… a… a… a Viareggio hanno creato questo clima vergognoso, è una reciproca caccia alle streghe, io troverei molto bello che tu da questa storia ti tirassi fuori”.
G: “Giuliano, io voglio soltanto che chi sa la verità la dica”.
A: “Ma vattelapesca chi la sa e qual è. Tu hai capito chi ha fatto qualcosa?”.
G: “Io penso che tu l’abbia capito anche te”.
A: “Ma per qualcuno forse dei locali sì, ma io non lo so, non lo so. Ma vedi, noi ci muoviamo su cose diverse. Questo non è un processo contro Paolo, ma contro altri…”.
Quel “per qualcuno dei locali forse sì” fa pensare che qualcosa, se non tutto, Amato lo sappia. Ma quando viene chiamato a testimoniare dai giudici, che hanno ricevuto dalla vedova Barsacchi il nastro con la registrazione, giura di non sapere nulla di nulla. Alla fine comunque la manovra col morto (“Pretura d’oro, colpa dei morti”, titola La Nazione) fallisce, grazie anche alla tenacia di Annamaria, che ignora gli amorevoli consigli di Amato. Il 13 dicembre 1990 i veri colpevoli della tangente vengono condannati, e sono tutti vivi: Barsacchi viene scagionato e la sua memoria riabilitata. Quando il Fatto pubblicherà la telefonata, con tanto di audio, Amato scriverà a Repubblica per minimizzare: “Non avevo affatto invitato la signora a non fare i nomi di coloro che le risultavano colpevoli”, ma solo “a non fare i nomi di persone su cui non aveva alcun indizio di colpevolezza, pur di salvaguardare la memoria di suo marito. Il tribunale ne prese atto e finì lì”. Mica tanto. Nella sentenza, i giudici del Tribunale di Pisa, Alberto Bargagna, Carmelo Solarino e Alberto De Palma, parlano anche di Amato: la sua telefonata alla vedova mirava a scongiurare “una frittata, intendendo per tale un capitombolo complessivo del Partito socialista”. E si domandano come mai “nessuno di questi eminenti uomini politici come Giuliano Vassalli (all’epoca ministro socialista della Giustizia, ndr) e Amato stesso si siano sentiti in dovere di verificare tra i documenti della segreteria del partito per quali strade da Viareggio arrivarono a Roma finanziamenti ricollegabili alla tangente della Pretura di Viareggio”. Non vedo, non sento, e comunque non parlo.
Il Corazzier Sottile. Nel 1990 il presidente Francesco Cossiga, sentendosi attaccato dal premier Andreotti, dalla sua Dc guidata da De Mita, dal Pds di Occhetto e Violante e dal gruppo Repubblica-Espresso, comincia a esternare a tutto spiano, “picconando” i suoi nemici veri o presunti. Craxi gli piazza alle costole Giuliano Amato, che diventa uno dei consigliori più ascoltati del Quirinale. Il risultato è che il Psi è l’unico partito, insieme al Msi di Gianfranco Fini che pure lo difende, a essere risparmiato dalla furia cossighiana. Il Pds prepara la richiesta di impeachment, spalleggiato da Eugenio Scalfari, che chiede per il presidente addirittura la perizia psichiatrica. Il 1° maggio 1991 Amato spara a zero: “Il capo dello Stato è oggetto di un’autentica campagna che, a ondate successive, persegue l’esplicito scopo di destabilizzare le istituzioni”. L’indomani il presidente dei senatori Dc, Nicola Mancino, risponde a muso duro sull’Unità: “Amato farebbe bene a fare nomi e cognomi dei complottatori. Per quanto ci riguarda l’idea di una nostra compartecipazione al complotto è semplicemente ridicola”.
Il 3 maggio, sempre sull’Unità, è Giorgio Napolitano a strapazzare il Dottor Sottile: “C’è da chiedersi a chi possa giovare il sempre più ostentato schierarsi del Psi come ‘partito del presidente’, contro tutti i supposti protagonisti e complici di un presunto complotto contro il capo dello Stato… Cossiga è purtroppo attivamente coinvolto in una spirale di quotidiane polemiche, di difese e di attacchi di carattere personale e politico, fino alla sconcertante e francamente inquietante distribuzione di etichette e di voti a giornali… Perché Amato non confuta nel merito le tesi di chiunque tra noi, come sarebbe legittimo, anziché emettere indistinte denunce, riferendosi a una campagna contro il capo dello Stato che sarebbe stata promossa non si sa bene da chi e per quali calcoli, e di cui sarebbe partecipe il Pds? Non ci si risponda con la facile formula del ‘partito trasversale’ ”. Amato, nella sua replica, non evoca il partito trasversale, ma – con ventuno anni di anticipo – l’asse Napolitano-Mancino: “Ho parlato di campagna, non di complotto. Spiace dover constatare che prima Mancino, poi Napolitano ritengano che si tratti della stessa cosa”.
Vent’anni dopo, con Napolitano al Colle, Amato e Scalfari diventeranno i più fedeli corazzieri del Quirinale. Amato verrà nominato giudice costituzionale e sia Re Giorgio sia Scalfari lo candideranno come successore al trono. Come passa, il tempo. (3-continua)
da Il Fatto Quotidiano del 23 gennaio 2015
1a puntata – Tutte le facce del favorito al Colle
2a puntata – Dal “Salva Silvio” all’intervento pro Fiat