Già nel 1998 lo studioso aveva descritto il sistema mafioso nella regione rossa. Ma, chiarisce, rispetto al negazionismo lombardo gli amministratori e le organizzazioni sociali hanno messo in campo più anticorpi. Poi, però, c'è stato il cedimento di chi ha trovato "conveniente" il rapporto con le cosche. Fino ai 117 arresti dell'inchiesta Aemilia
Era il lontano 1998 quando Enzo Ciconte (nella foto con il magistrato Armando Spataro), tra i massimi esperti di criminalità organizzata, pubblicava il libro “Mafia, camorra e ‘ndrangheta in Emilia-Romagna”. Diciassette anni dopo, nella regione nonostante tutto ancora rossa si chiude con 117 arresti la prima maxi-inchiesta sulle cosche. In mezzo, il fim già visto – in Lombardia, in Piemonte, in Liguria – delle collusioni con la politica e l’imprenditoria locale “sana”. E di una certa resistenza, da parte della classe dirigente, ad ammettere il problema. Anche se, sottolinea Ciconte, docente di Storia criminalità organizzata all’Università di Roma Tre e di Storia delle mafie italiane a Pavia, in Emilia-Romagna c’è stata più attenzione rispetto alle altre regioni del Nord. Quello che è successo, però, è il cedimento di alcuni “anticorpi” che nei decenni passati avevano fatto da argine all’inquinamento criminale: l’imprenditoria e la politica, appunto.
Che cosa si poteva già scrivere 17 anni fa della ‘ndrangheta in Emilia- Romagna?
Nel libro spiegavo che nel sistema emiliano-romagnolo erano presenti non solo la ‘ndrangheta, ma anche Cosa nostra e la camorra. Erano attive certamente nel traffico di stupefacenti, ma anche nell’economia legale, in particolare nell’edilizia. Sostenevo che gli appalti al massimo ribasso fossero un errore, perché attiravano i mafiosi dal Sud al Nord. Erano loro le aziende che potevano permettersi di aggiudicarsi i lavori a un costo minimo, perché perseguivano altri obiettivi: mettere piede in realtà nuove, instaurare rapporti con il mondo delle professioni, con sindaci, assessori, funzionari comunali. Investimenti per il futuro. Qualcosa di diverso dal tradizionale controllo del territorio, tipico del Sud.
Al Nord, e soprattutto in Lombardia, il radicamento delle mafie è sato negato fino all’ultimo, soprattutto dai politici e amministratori. In Emilia-Romagna com’è andata?
E’ andata in modo diverso. E’ stata proprio la Regione a commissionarmi diversi studi sul fenomeno, dal 1999 fino all’ultimo del 2012. Rapporti in cui naturalmente si parlava già del clan Grande Aracri al centro dell’inchiesta di oggi e da cui emergeva che la ‘ndrangheta si era installata in modo prepotente nella zona di Reggio Emilia ed esercitava una forte pressione sul mondo dell’economia. E del sistema ormai non facevano parte solo quelli di Cutro (il paese del crotonese da cui provengono i Grande Aracri e gran parte dell’immigrazione calabrese della zona, ndr), ma anche elementi legati all’imprenditoria locale. Come stava succedendo a Milano, questa era la novità.
I suoi allarmi come sono stati accolti?
Da un lato nessuno ci voleva credere, “la mafia è cosa loro”, dicevano. Dall’altro ricordo politici come Massimo Mezzetti (oggi assessore regionale alla Cultura con delega alla legalità, ndr) che a Modena fece battaglia per imporre il tema. Anche a Reggio, ci tengo a dirlo, il sindaco Delrio e l’assessore alla legalità Corradini erano impegnati, cosa che altrove non è avvenuta. Nonostante questo, sindaci anche di sinistra non hanno compreso la gravità del fenomeno. Molti non avevano lenti giuste per capire, salvo i casi di collusione ovviamente.
Lei ha sostenuto che in Emilia-Romagna gli anticorpi c’erano: le istituzioni, le cooperative, i sindacati, la chiesa…
Certo, ma gli anticorpi non sono stati coltivati, cosi hanno subito dei mutamenti. Il primo cedimento è stato quello dell’economia e degli imprenditori, che hanno trovato convenienza nei servizi offerti dalla criminalità. Il secondo, quello del mondo politico: alcuni hanno fatto finta di niente, magari anche per inconsapevolezza, altri hanno preso voti e usato rapporti. Vedi la cena di Pagliari (il consigliere comunale di Forza Italia a Reggio arrestato oggi, ndr) con gli imprenditori calabresi, un fatto inquietante.
Resta il fatto che la prima grande inchiesta antimafia della Procura di Bologna, paragonabile a Infinito in Lombardia (2010) e Minotauro in Piemonte (2011) è scattata solo oggi. La magistratura non si è mossa tardi?
Gli arresti ci sono stati anche in passato. Vedo più un limite della magistratura giudicante che della magistratura inquirente. A Reggio ci sono stati processi dove si accoglieva l’accusa di traffico di droga, ma non il 416 bis, il reato di associazione mafiosa. Un’alta autorità del tribunale mi diceva un anno e mezzo fa che nella zona c’erano i mafiosi, ma non la mafia. Nessuna organizzazione, insomma.
Invece ora le accuse toccano anche i lavori del post-terremoto.
Nel 2012 ho fatto un incontro pubblico a Modena, proprio nei giorni successivi al sisma. Un giornalista mi ha chesto se vedevo “il rischio” di infiltrazioni dei mafiosi nella ricostruzione. Ho risposto: “Non il rischio, ma la certezza. Il problema è solo cacciarli”.
Ormai, grazie alle inchieste degli ultimi anni, sappiamo molto della presenza mafiosa nel Nord. Secondo lei ci sono differenze sostanziali tra il caso Emilia e il caso Lombardia?
Non vedo differenze strutturali, la ‘ndrangheta è sempre quella. La differenza è che in Lombardia l’immigrazione calabrese è stata molto più ampia e diffusa. Questo ha portato a una presenza numericamente più forte. E da parte della società lombarda c’è stato un maggiore interesse di stringere rapporti con la mafia.
E in Emilia?
In Emilia il fenomeno è molto legato all’immigrazione da Cutro e all’arrivo in soggiorno obbligato di Antonio Dragone, il primo boss cutrese stabilitosi proprio in provincia di Reggio. Detto questo, va sottolineato, non tutti i cutresi sono mafiosi. Anzi, molti di loro sono vittime due volte. Una perché hanno dovuto lasciare il loro paese per mancanza di lavoro, la seconda perché spesso sono costretti a pagare il pizzo, per paura di ritorsioni contro i familiari rimasti in Calabria.