Arturo Varvelli, analista, esperto di Libia dell’Istituto per gli studi di politica internazionale: "La diplomazia? L'Occidente sta facendo qualcosa di deleterio, ossia l'appoggio da parte degli attori internazionali e regionali ai vari gruppi in campo"
Arturo Varvelli, analista, esperto di Libia dell’Istituto per gli studi di politica internazionale. Che significato ha l’attacco all’hotel Corinthia di Tripoli?
“L’attentato colpisce un simbolo occidentale, ma è anche un attacco al governo islamico in carica in questa parte della Libia, che nelle ultime settimane si è mostrato diviso sulla partecipazione ai colloqui in corso a Ginevra (di cui proprio ieri cominciava la seconda tranche). Può trattarsi di una forte intimidazione delle frange più estremiste, in particolare di quelle dichiaratamente jihadiste appartenenti all’Isis, rispetto alla partecipazione del governo di Tripoli a queste trattative. Ma è anche una nuova escalation della presenza jihadista in Libia, ormai acclarata fin dai tempi dell’attentato all’ambasciatore americano Chris Stevens nel 2012. Allora si trattava però di milizie legate ad Ansar al-Sharia, molto potente nella zona di Bengasi e della Cirenaica, dove invece da quest’estate gruppi di combattenti libici di ritorno dal fronte siriano e iracheno hanno istituito il primo nucleo di Isis in Libia, che si è arroccato attorno alla città di Derna, instaurandovi una succursale del Califfato.
Qual è dunque il rapporto fra Isis e Ansar al-Sharia?
La situazione è molto fluida. Dopo una prima fase nella quale alcune milizie sono passate sotto il cappello di Isis, il Califfato è stato sempre più ostacolato dagli altri gruppi radicali locali: a Derna le brigate Abu Salim si sono coalizzate con altre milizie per contrastare Isis. C’è da una parte un fenomeno di permeabilità e dall’altra una notevole rivalità, dovuta anche alla forte caratterizzazione territoriale di alcuni di questi gruppi, che ci tengono ad avere un proprio ruolo indipendente e autonomo dai grandi network internazionali, puntano a conquistare il governo in Libia, non ambiscono a qualcosa di più grande e soprattutto percepiscono come un problema ogni intromissione straniera, che sia quella occidentale o quella di Al Baghdadi.
Come si inquadra la situazione libica rispetto alle altre forze estremiste del Nord Africa?
Il panorama è molto complesso, ma sicuramente la nascita di Isis ha comportato un revival del jihadismo in tutta l’area, innescando anche una concorrenza tra i vari gruppi per mettersi in evidenza. Un’area di grande crisi come questa, dove da un lato c’è o è tornato un forte autoritarismo (Egitto), dall’altra ci sono stati falliti e instabili, offre elementi di grande fertilità al prosperare del radicalismo islamico.
Dobbiamo temere che il Califfato si estenda davvero a tutto il nord Africa, come nei proclami di Isis?
Questa è propaganda, ma alcuni fatti preoccupanti ci sono. Ci sono tutti gli elementi per una proliferazione delle sigle jihadiste: non scordiamo che la prima versione di Isis è un sottoprodotto dell’instabilità dell’Iraq e della guerra in Siria. La stessa dinamica si sta verificando in Libia. Il mondo radicale è composto da gruppi molto variegati ed c’è una forte concorrenza tra il network di Al Qaeda e una grande galassia di gruppi che rivendicano una loro autonomia, molto disuniti e in concorrenza fra di loro. Ed è questo il grande rischio per l’Italia e per l’Occidente: che si inneschi una competizione all’atto terroristico, per dimostrare la propria potenza e la propria capacità operativa, come abbiamo visto a Parigi.
Qual è il ruolo della Comunità internazionale? Cosa può fare l’Italia?
Al di là dello shock della perdita in vite umane, penso che la comunità internazionale sia legata mani e piedi a quello che sta facendo l’inviato dell’Onu, Bernardino Leon a Ginevra. Quello che noi invece non dichiariamo ma che in realtà stiamo facendo è qualcosa di deleterio, ossia l’appoggio da parte degli attori internazionali e regionali ai vari gruppi in campo, di fatto alimentando la tensione: ogni potenza sta cercando di orientare l’attore politico che più gli garba e al quale vorrebbe consegnare il paese. In realtà quello che ci vorrebbe è uno sforzo di mediazione tra le parti per arrivare a un governo davvero rappresentativo che possa costituire un primo passo per un nuovo patto sociale nel paese. Siamo molto pessimisti sulla capacità di fare questi passi. È più probabile che la Libia rimanga disunita, con due governi che controllano poco entrambi i territori e una proliferazione di traffici illegali e fondamentalisti.
Qual è la sua valutazione dei negoziati in corso a Ginevra?
Sono molto positivi, ma solo se supportati da iniziative concrete: l’Europa e i paesi occidentali non si possono trincerare dietro un semplice supporto a parole all’operato di Bernardino Leon, ma dovrebbero contribuire con reali proposte nella spartizione delle risorse, che alla fine è ciò che importa. Dietro alle formule sul federalismo e così via, bisogna trovare concretamente chi amministra il territorio e come si dividono le risorse. Solo mettendo insieme questi punti si ha ancora una chance che il paese possa indirizzarsi su una via pacifica. Il tentativo di Bernardino Leon è notevole, è stato forse l’unico competente tra gli inviati, che finora hanno perso troppo tempo. Ma ora è forse troppo tardi. Questo è l’ultimo tentativo, affidiamoci alle residue speranze della mediazione delle Nazioni Unite. In alternativa, avremo un paese a pezzi.