La mafia calabrese con radici sulle rive del Po. Dicono questo le 1.295 pagine di fredda ordinanza della procura distrettuale antimafia di Bologna che ha provocato il blitz del 28 gennaio. La mafia nel Nord eccola qui, nel cuore civile del Paese, nuda e cruda. La caduta di un mito che, per contrasto, risuona ancora nella frase detta qualche mese fa dal parroco e dal sindaco di Brescello, provincia di Reggio (ma nell’Emilia): “La mafia qui non esiste”. Tragica e comica frase perché a proferirla sono gli infedeli e inadeguati epigoni di don Camillo e Peppone.
Negli anni 2000-2004 ho fatto il cronista a Reggio Emilia, capo delle cronache della provincia di un giornale locale del gruppo L’Espresso, il più venduto in quella ricca e civile provincia reggiana, io che sono nato a Catania. Per questa seconda ragione, l’istinto mi aveva messo in allarme. All’inizio del millennio, a Reggio E. alcuni fatti puzzavano di cose a me già note e raccontate altrove. Arrivato in Emilia con la speranza di fare cronache “positive” su una parte nobile d’Italia, la città del primo Tricolore, della Resistenza, dei servizi pubblici mitteleuropei e degli asili-nido più belli del mondo, mi ero ritrovato a raccontare anche storie di “un altro mondo”. Tra resistenze (con la r minuscola) e pigrizie professionali, rimozioni, sottovalutazioni e di “ma chi te lo fa fare, sei un fissato…”.
Pochi si guardavano intorno né aprivano gli occhi sulle “profonde infiltrazioni della ‘ndrangheta” (così le ha definite ora il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti) in quel tessuto civile dove affondano le “radici democratiche” della Costituzione italiana.
Cosa ho visto, con occhi terroni, in quegli anni? Cosa accadeva a Reggio nell’Emilia?
Prima storia. Luglio 2002. Una sera, tra un indicente stradale e l’altro, la radio sintonizzata sulle onde della polizia, gracchia in redazione la seguente notizia. Omicidio a Poviglio, bassa nord, tra la città e il Po. Un uomo ucciso con colpi d’arma da fuoco alle spalle e incaprettato. Ora, “incaprettato” è gergo palermitano: una corda dietro le spalle, tra collo e piedi, morte per lento strangolamento. Mettemmo la parola mafia nel titolo. Quella piccola storia (dietro la quale c’erano due siciliani e due campani legati alle mafie ma anche un giro da otto milioni di euro legato alla falsificazione dei prosciutti) sette anni dopo finirà (compresi gli articoli scritti con il collega Tiziano Soresina) nella prima relazione della Direzione nazionale antimafia sulla infiltrazioni in Emilia.
Seconda storia. In quegli anni, lungo l’asse del Po, stavano costruendo la nuova linea Tav e a Reggio E. in pochi anni i residenti crebbero di decine di migliaia di unità. La crisi non era ancora arrivata e le imprese edili locali (in gran parte cutresi) costruivano opere e case a ritmi vertiginosi. La sabbia del Po era preziosa, per lavori pubblici e privati. Un’impresa (la Bacchi, reggiana doc, poi indagata), estraeva abusivamente sul Po, poi trasportava di notte. La Forestale si appostava sulle sponde del fiume e indagava sugli abusi. Il corrispondente del mio giornale, un ex vigile urbano di Brescello, Donato Ungaro, durante una nevicata, filmò le escavazioni illegali e noi pubblicammo tutto. Il video di Donato finì in procura. Al cronista Ungaro, ignoti tagliarono le ruote della macchina, per due volte e di notte. E un giorno, fuori dal giornale, arrivò un signore che mi disse: “E’ lei che pubblica le notizie e che fa il capo qui? Ma lei ce l’ha con i calabresi?”. Lo mandai a quel paese in siciliano e ci fu anche un mio collega reggiano che mi disse: “Ma non lo sai chi è quello?”. Era un Grande Aracri, della omonima famiglia di Cutro, residente a Brescello, frazione di “Cutrello” (un quartiere abitato da immigrati calabresi), ora al centro del blitz del 28 gennaio 2015. Qualche settimana dopo quello scoop, e dopo aver pubblicato notizie sul progetto di una centrale a turbogas (con tutta la medesima compagnia di giro coinvolta nell’affare) da smontare in Portogallo e rimontare qui sul Po, Ungaro fu licenziato dal Comune. L’allora sindaco di Brescello, Coffrini (padre del sindaco Coffrini junior che ora – dodici anni dopo – nega la presenza della mafia nel suo comune) licenziò il vigile urbano-cronista Ungaro. “Lavora poco e propala notizie riservate del Comune”, fu la motivazione. Falsa, perché della centrale a turbogas non c’era traccia negli atti comunali (e questo era il problema). L’operazione antimafia di mercoledì 28 gennaio 2015 ha stabilito che nel 2009 le elezioni comunali a Brescello sono state inquinate dal voto della cosca cutrese.
Continuo?
Terza storia. Ora, l’imprenditore reggiano che scavava sabbia abusivamente e che – come accertato dalla procura di Reggio E. – faceva concorrenza sleale alle ditte oneste degli imprenditori reggiani, è stato sotto inchiesta e ha subito per questo vari sequestri in base alle norme antimafia. Ma allora era molto protetto e protestava con il mio giornale, mi telefonava: “Ma lei ce l’ha con me? Venga a farsi una gita sul mio vaporetto sul Po…”. Lui organizzava crociere frequentate da gente che contava. Io non ci sono andato.
Quarta storia. Non era l’unico, a telefonarmi. Telefonava e scriveva al giornale anche il reggianissimo Giuseppe Pagliani, allora consigliere comunale del centrodestra a Scandiano. Ora è capogruppo di Forza Italia a Reggio E. e consigliere provinciale: in questa veste nel dicembre scorso ha proposto di aprire uno sportello per la legalità in Provincia.
Pagliani era cortese, a me sembrava un po’ fesso e comunque era un esponente emergente dell’opposizione: un mestiere duro in una provincia nella quale 49 comuni su 49 erano governati dal centrosinistra. Lo ascoltavo. Una volta mi chiese: ”Lei è comunista?”. Risi e con una scusa chiusi, negando di aver mai avuto una tessera in tasca. Faceva l’avvocato. Ora lo hanno arrestato perché in una cena avrebbe ricevuto la proposta di fare gli interessi dei cutresi a Reggio E., insieme a giornalisti compiacenti. Secondo l’accusa, lui non l’avrebbe rifiutata, quella proposta.