Nessuno è oggi in grado di influenzare da solo il prezzo del petrolio: né l’Arabia Saudita, né gli Stati Uniti, né Big Oil, le grandi compagnie multinazionali. Quella che Repubblica del 26 gennaio definisce “la più grande guerra commerciale degli ultimi 50 anni” non può pittorescamente essere ridotta ad una contesa tra “sceicchi dell’oro nero e cowboys dello shale” ma va inquadrata nei colpi di coda che un sistema che macina 10 miliardi di dollari al giorno sferra sull’atlante di un’economia e di una geopolitica ancorati temerariamente al costo del greggio. Già nei post più recenti si è messo in luce come i due insormontabili problemi che precludono il futuro delle fonti fossili – gli effetti sul clima e il raggiungimento del picco di Hubbert – incidano sul riequilibrio di domanda ed offerta in un mercato dell’energia completamente modificato, in cui i costi produttivi sono sempre più elevati, dato che serve energia per estrarre petrolio. E ne servirà sempre di più e l’energia costa, al di là delle quotazioni attuariali sulle piazze mondiali.
Il capitalismo moderno poggia ancora sul petrolio, una risorsa che dal valore di 117 $ al barile di giugno 2014 è crollata, sfondando attualmente la soglia dei 50 $. A causa di chi e perché si è prodotto un simile schianto? I fattori che si combinano sono molteplici e la loro convergenza non durerà a lungo.
E’ vero che l’Arabia Saudita ha abbassato i listini di vendita in Nordamerica e non in Asia, con lo scopo di colpire gli Stati Uniti, protagonisti di un cambiamento strutturale, con un’esportazione a giugno 2013 di 7,3 milioni di barili al giorno, ben 1,2 milioni in più rispetto allo stesso mese del 2012 (un incremento equivalente all’intera offerta di un paese come l’Algeria!). E’ vero poi che il gioco al ribasso colpisce volutamente la Russia di Putin, il Venezuela e l’Iran. Ma non va dimenticato che nel mondo l’offerta di petrolio è cresciuta più della domanda e oltretutto la domanda appare debole per una situazione economica che non dà indicazioni di un ritorno a stagioni di crescita come nel passato.
L’83% dell’aumento produttivo globale è da imputare ad un solo paese: gli Stati Uniti d’America, mentre l’OPEC nel 2014 ha difeso la propria quota di mercato. L’Arabia Saudita sta quindi banalmente affidando al libero mercato la fissazione del prezzo, come dire: c’è troppo petrolio? Che scenda il prezzo, così aumenteranno i consumi e ad uscire fuori mercato saranno i produttori più costosi! Se parliamo di costi di estrazione, in Medio Oriente siamo sotto i 40 $, mentre per lo shale americano si stimano 65 $ al barile. Riad ha fatto bene i propri calcoli, comprendendo di essere il paese in grado di resistere più a lungo al ribasso.
In genere paga l’industria estrattiva, mentre ne guadagnano le industrie manifatturiere e gli automobilisti e i trasportatori, perché risparmiano denaro. Quello che sta accadendo equivale ad una grande manovra di stimolo, che oltretutto colpisce a tappeto, favorendo anche le classi sociali più basse. Gli economisti valutano per l’Italia un aumento del Pil dello 0,6% per effetto del calo-petrolio, mentre la bolletta energetica nazionale, già scesa globalmente di 11 miliardi nel 2014 (stime dell’Unione Petrolifera) calerà di altri 6/7 miliardi nell’anno corrente. Tutto bene? Per niente, visti i costi ambientali e l’instabilità che si riversa su molti Paesi.
E poi, il calo sarà duraturo? Per fermare la caduta occorrerebbe un aumento della domanda oppure un drastico calo di offerta. Entrambe le soluzioni non hanno chance di materializzarsi in tempi rapidi, ma lasciato a se stesso il mercato abbrevierà il periodo low-cost, perché nel caso di crollo sotto i 40 dollari, i tagli agli investimenti saranno rilevanti ed il ridimensionamento della capacità produttiva nel settore più rapido.
Lo sconquasso in atto ci dice che il mondo cambia più rapidamente di quanto gli esperti sappiano immaginare e non è sufficiente studiare il passato per prevedere il futuro. La fame di energia dell’Asia non è infinita e il loro sviluppo non sarà la fotocopia del nostro, perché rinnovabili ed efficienza sono ad uno step evolutivo ben diverso rispetto a quelli dei nostri tempi di sviluppo. Petrolio e gas di scisto non hanno inaugurato una nuova stagione dell’abbondanza, hanno solo reso accessibili risorse conosciute grazie al prezzo elevato del greggio e solo a tale prezzo avranno ancora chance.
Meglio prendere il tempo per le corna e accelerare il cambio di paradigma energetico che le energie naturali e rinnovabili – incardinate in stili di vita sostenibili – possono già innescare. Deve farsi strada la consapevolezza, fra chi governa e i cittadini, che essere sullo stesso pianeta e alimentarsi delle stesse risorse impone una politica globale di collaborazione se si ha come obiettivo la sicurezza, la difesa del clima e una vita decente per tutti. Sarebbe stato bello se nella telenovela sull’identikit del Presidente della Repubblica, avesse fatto capolino un candidato convinto che vada lasciata sotto terra, nelle rocce, sotto il ghiaccio e sotto gli oceani una bella fetta di fossili, per non rilasciare in atmosfera in pochi anni quello che la natura ha concentrato nel corso dei secoli.
Mario Agostinelli e Roberto Meregalli