Alla vigilia delle elezioni politiche del ’92, aveva ricevuto nella sua segreteria di via Libertà a Palermo una busta: il mittente era l’imprenditore agrigentino Filippo Salamone titolare della Impresem, che qualche anno dopo si sarebbe beccato una condanna per concorso in mafia con l’accusa di essere l’erede di Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina. Dentro quella busta, c’era parte di un blocchetto di buoni-benzina per un valore complessivo di 3 milioni di lire. L’incorruttibile Sergio Mattarella, all’epoca deputato e commissario della Dc siciliana, raccontò di averli accettati come un regalo, “di modesto valore”, inviatogli a titolo personale da un privato cittadino, e di averli distribuiti dopo le elezioni ai suoi collaboratori . Ma per questo contributo, il notabile siciliano che oggi è considerato uno dei favoriti nella corsa per il Quirinale, finì per un decennio nel tritacarne del processo sulla Tangentopoli siciliana che negli anni Novanta travolse i vertici di tutti i partiti: dai dc Calogero Mannino, Rino Nicolosi, Angelo La Russa e Severino Citaristi, ai socialisti Nicola Capria e Nino Buttitta, al pds Michelangelo Russo.
Scaturita dalle dichiarazioni di Salamone, l’inchiesta raccontò il sistema di spartizione delle tangenti (cifre tra i 150 e i 400 milioni) versate a deputati e segretari politici con l’obiettivo di orientare gli appalti e la spesa pubblica in Sicilia. Mattarella fu assolto “perché il fatto non sussiste”. L’ammontare dei 3 milioni di lire non esponeva il parlamentare ad alcun obbligo di dichiarazione e i giudici non riuscirono a provare le accuse di Salamone, che sosteneva di avergli consegnato personalmente denaro per 50 milioni: 40 in contanti e 10 in buoni-benzina. Le parole dell’imprenditore, recita la sentenza di assoluzione, “non hanno trovato alcun riscontro, non potendo ritenersi tale la copia della fattura da poco più di 197 milioni, rilasciata dalla Ip alla società di Salamone (poi scomparso nel 2012) di cui “è del tutto incerta la destinazione”. Sul punto, comunque, osserva il Tribunale, “la pubblica accusa non ha svolto alcuno specifico accertamento al fine di verificare quali auto avessero usufruito dei buoni-benzina”. Uno dei pm è Gaspare Sturzo, pronipote del fondatore del Partito Popolare, l’ispiratore di tutti i politici cresciuti all’ombra dello Scudo crociato.
Mattarella, insomma, la fa franca, e come lui gli altri imputati eccellenti, assolti in blocco dall’accusa di corruzione, tutti tranne l’ex assessore siciliano Turi Lombardo, condannato in primo grado a 4 anni, poi cancellati in appello. Un nulla di fatto, insomma. Ma il processo lascia comunque uno strascico di “amarezza”; dopo le accuse, Mattarella si dimette da commissario regionale dc e dichiara: “La mia famiglia mi fa notare di aver pagato prezzi troppo alti; ho preso decisioni spesso dure che mi hanno provocato avversione: qualche insidia era da mettere nel conto”.
Un uomo senza macchia e senza paura: questa l’immagine che l’attuale giudice della Corte costituzionale, fratello di Pier-santi, il presidente della Regione ucciso da Cosa Nostra a Palermo nell’80, ha sempre tenuto a presentare nell’agone politico, ma il suo nome torna a risuonare a sorpresa nell’appello del processo Andreotti, quando nel 2003 Pino Lipari, braccio destro del boss Provenzano, in aula racconta: “Il contatto politico principale, quello più qualificato, si pensava fosse Salvo Lima, ma Cosa Nostra attraverso i cugini Salvo aveva stabilito contatti anche con Mannino, con Nicolosi, attraverso l’imprenditore Salamone, con Ruffini, con Sergio Mattarella”. Dichiarazioni senza seguito di un geometra che tenta di accreditarsi come pentito, ma viene considerato un depistatore, che però fanno il paio con le parole che nel 2012 l’architetto Giuseppe Liga, condannato a 20 anni per associazione mafiosa e considerato l’erede del boss di San Lorenzo, Salvatore Lo Piccolo, rilascia a una rivista palermitana: “Sono stato in contatto con Mattarella, il fratello Piersanti e Leoluca Orlando”. Lui, Sergio, il diretto interessato, non ha mai replicato, preferendo la sobrietà del silenzio istituzionale. Dovrà intervenire, però, nel processo sulla trattativa Stato-mafia, dove il difensore degli ex ufficiali del Ros, Mario Mori e Antonio Subranni, l’avvocato Basilio Milio, lo ha citato come teste: se dovesse essere eletto al Quirinale, sarebbe il secondo presidente in carica a dover testimoniare nel processo sul patto tra boss e istituzioni.
da il Fatto Quotidiano del 24 gennaio 2015
In riferimento all’articolo di Sandra Rizza, pubblicato nel numero del 24 gennaio, sotto il titolo “Mattarella, i buoni di benzina e l’imprenditore dei boss”, malgrado l’amarezza, ometto le mie considerazioni ma appare doveroso portare a conoscenza dei lettori, quanto meno, quel che segue. Va chiarito che l’ing. Filippo Salamone non era un boss mafioso ma un imprenditore, fratello di un magistrato di una Procura della Repubblica, che soltanto in seguito fu accusato di occuparsi di tangenti negli appalti e processato. L’ing. Salamone, nel marzo del 1992, mi ha fatto chiedere, da un altro imprenditore, un incontro, nel corso del quale ha offerto un contributo finanziario alla mia campagna elettorale. Io ho rifiutato quella offerta, come è attestato dalla sentenza del Tribunale di Palermo del 1 marzo 2000 n. 519, definitiva perché in giudicato. Dopo alcuni giorni il Salamone ha fatto recapitare, presso la mia segreteria, una lettera di auguri per le elezioni con alcuni buoni di benzina, del valore di circa millecinquecento euro (nel sommario dell’articolo si parla di tre milioni senza precisare che si trattava di lire e non di euro). Sulla base di dichiarazioni diverse del Salomone (per altro imprecise e più volte modificate) sono stato accusato di aver ricevuto un contributo elettorale senza registrarlo nella relativa contabilità (quindi di violazione delle regole sul finanziamento dei partiti, e non di corruzione) e ne sono stato assolto “perché il fatto non sussiste” . Il Tribunale, che ha deciso nel merito pur essendo decorsi i termini di prescrizione, ha ritenuto, come si legge nella sentenza, di “generale genuinità e credibilità” la precisa e completa ricostruzione dei fatti da me presentata. La sentenza ha, inoltre, affermato che “l’on. Mattarella era un politico del tutto estraneo al mondo degli appalti” e che “da nessuna risultanza dibattimentale sono emersi stretti rapporti” suoi con il Salamone. Per quanto riguarda la generica e grottesca dichiarazione di tale geom. Lipari – a me sconosciuta – lo stesso articolo afferma che questi è stato ritenuto un depistatore e, inoltre, contrasta radicalmente con quanto affermato dalla magistratura. Per quanto attiene all’ affermazione del geom. Liga, da recente condannato, di “essere stato in contatto” con me e con Leoluca Orlando, va detto che, al massimo, può essere riferita a qualche pubblica occasione e manifestazione di circa venticinque-trenta anni addietro, quando il Liga era giovane presidente regionale del Movimento cattolico lavoratori (MCL). Infine, apprendo dal vostro giornale di essere indicato come futuro testimone nel “processo sulla trattativa”. Sergio Mattarella
Ringrazio l’on. Sergio Mattarella che con la sua lettera nulla aggiunge e nulla toglie a quanto da me riportato nell’articolo al quale fa riferimento. Più che una smentita o una rettifica, la sua precisazione appare come una conferma delle informazioni contenute nella mia ricostruzione, basata esclusivamente su fatti di cronaca. Cordiali saluti e in bocca al lupo per l’alto cimento che l’attende. (Sandra Rizza)
da il Fatto Quotidiano del 25 gennaio 2015