Cultura

Carmen Consoli, ‘L’abitudine di tornare’ e il gusto di sapersi aspettare

Bentornata Carmen Consoli. Sono passati sei anni dall’ultimo disco di inediti, “Elettra”. Sei anni sono davvero tanti per i tempi discografici di oggi. Sei anni se li è presi il De André negli ultimi tre dischi; se li è presi Guccini – ne ha presi otto, in realtà, più per mancanza di ispirazione e soprattutto di voglia – prima del suo “L’ultima Thule”.

Se li è presi Carmen Consoli per “L’abitudine di tornare”. Ovviamente non è una gara a chi fa passare più anni tra un disco e l’altro. Semplicemente, è auspicabile che prendersi del tempo voglia dire assecondare la propria ispirazione, scrivere solo quando davvero si ha la necessità di farlo, quando si ha qualcosa da dire.

È un modo non molto in voga d’intendere il mestiere del cantautore. Un approccio che porta il marchio di fabbrica della raffinatezza, quello di chi scrive senza forzare le proprie tempistiche e il proprio stile, in maniera coerente con i propri ritmi e con la propria poetica. Con altre e più riconoscibili parole: è canzone d’autore.

Questo modo di intendere il genere è lo stesso di altri artisti a cui non molto tempo fa, qui su queste pagine, ho dedicato questo post. Carmen Consoli, Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e altri ancora, rappresentano la generazione di quegli artisti che, pur navigando in un mainstream sostanziale, riescono a conservare una propria dignitosa identità, un proprio stile, una propria poetica, mai piegandosi all’iconicità riconoscibile del pop. Non ci sarebbe niente di male, ma non lo fanno, perché sanno fare altro.

E “L’abitudine di tornare” non fa eccezione. Le dieci tracce del disco ci regalano un’estrema maturità di scrittura. Prendersi il proprio tempo oramai nello stile di Carmen Consoli vuol dire non aver paura di scrivere canzoni poeticamente virtuose, senza scadere in un tono troppo aulico. Il limite dei testi dei primi dischi era forse l’uso eccessivo di aggettivi e ridondanze, frasi barocche che tradivano un voler essere aulica a forza. In questo disco invece il dettato è chiaro e raffinato, pur mantenendo un aspetto essenziale della sua poetica: il ricorso all’accostamento di due parole, due termini, una dicotomia lessicale. Qui succede sin dai titoli dei brani: Esercito silente, Sintonia imperfetta od Oceani deserti. Più in generale, l’accostamento di due termini, spesso antitetici o ambiguamente consequenziali, è una caratteristica decisamente esclusiva e indicativa dello stile di Carmen Consoli; non di rado i due vocaboli si compongono di un sostantivo ed un aggettivo o avverbio, seguenti o anticipanti il sostantivo stesso, che spiegano e più volentieri ribaltano le caratteristiche frequenti nell’essenza del nome.

Succede già da Amore di plastica nel lontano 1996, e lì il nome dell’album sembra quasi un gioco allusivo: “Due parole”. Ma poi Confusa e felice, Mediamente isterica, o i frequentissimi passi nei testi del tipo “trasparenza e mistero” in Parole di burro, o l’insistenza su due termini come “rinuncia” e “contropartita” nel brano L’eccezione.

È lo stile di chi già nei testi, e quindi nella forma, vuole realizzare estrema coerenza col contenuto: è molto presente infatti nei brani di Carmen Consoli la denuncia dei paradossi e delle ipocrisie, sia nel rapporto tra i due sessi che nei bozzetti della piccola borghesia di paese, soprattutto del Meridione.

Andiamo a rintracciare questa caratteristica della sua poetica nel nuovo disco. In Sintonia imperfetta è notevole il bozzetto casalingo asfissiante, piatto forte del menu dell’autrice: un pranzo dalla suocera, in pieno agosto, un arrosto sontuoso e una stagnante pigrizia nelle menti degli astanti. Una situazione magmatica e claustrofobica fino a che, allo scoccare del secondo minuto della traccia, il colpo di scena prevede la definitiva emancipazione che fa il paio con la maturità artistica: “Quel pomeriggio si passava da un divano all’altro/ mentre studiavo come dirti che ti avrei lasciato”. In passato questi bozzetti si erano sempre risolti sostanzialmente nella malinconica accettazione della piccolezza umana di Fiori d’arancio o di Maria Catena. Ora no; ora non più. Lei, l’io poetico, sa già tutto. Il canto ha l’unico scopo di celebrare quel momento, in quel centoventesimo  secondo del brano: il canto serve e scandisce l’abbandono. Non è più una denuncia: la poetica della Consoli si muove e va dalla descrizione all’azione. L’aulicità a forza lascia spazio all’azione, le frasi nominali e gli aggettivi ai verbi.

Un’altra canzone sulla quale voglio soffermarmi è Ottobre. Colpisce la sapienza musicale dell’arrivo al ritornello, dopo la rincorsa riflessiva delle strofe in cui, tramite un dettato descrittivo e nostalgico, si prepara lo spruzzo di sole che deflagra l’apoteosi della parola “libertà”: liberatoria e frizzante come il mosto che bolle in pieno ottobre, come una trasformazione che covava da tempo in attesa di maturazione.

Anche musicalmente il disco appare convincente. La melodia serve alla perfezione il testo e non è mai ripetitiva, con passi imprevedibili che convogliano il senso delle parole verso luoghi inaspettati. Il fatto è che Carmen Consoli ha imparato molto bene a far sì che le canzoni si reggano da sole, significative prima di tutto nella struttura testo-melodia-armonia; poi valorizzate dagli arrangiamenti.

Ci sono voluti sei anni, dunque, per avere un nuovo disco di Carmen Consoli. Vuol dire che l’autrice si è dovuta aspettare. D’altra parte, la canzone d’autore ha una particolarissima caratteristica che la rende diversa dal pop e dal circo discografico: ha i tempi dell’autore, non quelli dell’industria. Benissimo così.