È il 2005 e le code davanti alla più famosa gelateria de L’Havana sono due: una per i turisti e l’altra per i locali: la prima per chi ha i pesos convertibili, la seconda per chi ha quelli comuni. Sono a un bivio: alla mia sinistra ci sono un francese, due spagnoli, tre tedeschi. Tutti turisti, e per giunta europei. Nell’altra solo cubani. Un uomo mi fa un cenno, devo mettermi in fila dietro ai turisti. Ma io sono riuscita a cambiare i soldi e trionfante, mi posiziono dove voglio: insieme ai cittadini de L’Havana per prendere il gelato che comprano loro allo stesso prezzo al quale lo pagano loro. L’uomo mi fissa, sento un disagio lontano.
So di non essere in colpa eppure quegli occhi puntati addosso mi ci fanno sentire. Dopo di lui cominciano a guardarmi una donna, un ragazzo, due anziane, tre bambini. Alla fine la gelataia sembro io, perché sono tutti rivolti verso di me e mi fissano con un’espressione nauseata, tipica di chi pensa: “Vergognati”. Rosa, la guida che mi accompagna a conoscere Cuba, mi aspetta da parte, lei il gelato non lo prende. Anche lei mi guarda strana. Quando è il mio turno ordino in fretta, pago e mi allontano di corsa. La mia curiosità e la mia voglia di gelato sono soddisfatte.
Dieci anni dopo chiudo l’album. Di foto e di ricordi.
È il 2015 e mi ripeto le parole pronunciate dall’americana Roberta Jacobson – vicesegretaria di Stato per gli affari dell’emisfero occidentale: “Spetta ai cubani decidere del loro futuro”.
Decidere, penso, significa scegliere. E, ancor prima, poter scegliere. Mi chiedo se si può scegliere quando non si è mai stati abituati a farlo. Mi domando se si è in grado di valutare il giusto quando – anche avendolo davanti – non lo si sa individuare. E se si può andare verso il futuro senza nessuno che ci prende per mano e ci guida.
Ritorno al passato. Apro l’album, sfoglio. È il 2005. Ovunque è pieno di spie, c’è ancora l’embargo, i cubani le aragoste possono pescarle per i turisti ma non mangiarle, i bambini vanno a scuola ordinati, in fila per due con le loro divise bianche e blu.
Spetta ai cubani decidere del loro futuro.
È il 2015 e l’avvio delle negoziazioni a L’Avana, dopo il disgelo ufficializzato il 17 dicembre ha il suono deciso di un futuro raccontato come solo da vivere, da oggi in poi.
Mi ributto a capofitto sull’album, lo sfoglio e rivedo colori che non ricordavo. È il 2005 e la prostituzione si respira come l’aria. Il numero di suicidi è altissimo, soprattutto tra i giovani. Istruzione e salute garantite danno la forza – non solo morale – per capire che mondo c’è fuori, salvo però non poterlo sfiorare.
Spetta ai cubani decidere del loro futuro.
Oggi rivedo in quel gelato, il più economico della mia vita, il prezzo altissimo che mi è costato: il distacco sprezzante di quei cubani con i quali avevo condiviso – finta democratica – la fila ma non la possibilità di scegliere a quale coda appartenere. Io, sì, fisicamente vicina ai cubani in coda, ero lontana da loro un’infinità di mondi, di tempi, di libertà di scelta.
Roberta Jacobson, americana, sta lavorando con la cubana Josefina Vidal Ferreiro, alta funzionaria del Ministero degli affari esteri all’avvio del processo di normalizzazione dei rapporti tra i due paesi, geograficamente vicini, separati solo da un braccio di mare e da decenni di negazione di libertà di scelta.
Il loro obiettivo dovrà essere quello di permettere ai cubani di decidere del loro futuro. Un compito difficile: in ballo c’è una fila da condividere e la scelta di un gelato dai mille gusti. Che ha lo stesso prezzo – e lo stesso valore – di qua o di là dal mare.