La voce aveva cominciato a circolare venerdì 30: Israele costruirà 450 nuove case nelle colonie in Cisgiordania, più della metà delle quali oltre la Barriera di separazione. Immediato era arrivato il no degli Stati Unti, seguito a distanza di 24 ore da quelli dell’Unione Europea e della Farnesina. Bruxelles ha fatto appello a Gerusalemme affinché faccia marcia indietro sulla decisione. “Gli annunci di nuove gare d’appalto per insediamenti, se si realizzeranno, danneggeranno la percorribilità della soluzione a due Stati”, si legge in una nota diffusa dal servizio europeo per l’azione esterna (Seae). Per la Ue, queste costruzioni sono “illegali dal punto di vista del diritto internazionale e costituiscono un ostacolo alla pace” pertanto i 28 ritengono che “Israele dovrebbe fare marcia indietro su queste decisioni, ponendo fine all’espansione degli insediamenti”.
Anche l’Italia ha rivolto “un appello al governo israeliano affinché riveda” la decisione” e “la politica degli insediamenti”. Il ministero degli Esteri ha espresso “profonda preoccupazione” per l’iniziativa. L’iniziativa di Israele, prosegue la Farnesina, “complica ulteriormente gli sforzi per il rilancio dei negoziati tra le parti ed appare incompatibile con la volontà, più volte ribadita dal governo israeliano, di giungere ad una pace basata sulla soluzione dei due Stati”. L’iniziativa di Israele, prosegue la Farnesina, “complica ulteriormente gli sforzi per il rilancio dei negoziati tra le parti ed appare incompatibile con la volontà, più volte ribadita dal governo israeliano, di giungere ad una pace basata sulla soluzione dei due Stati”.
Già lo scorso ottobre, l’Italia aveva condannato la decisione delle autorità israeliane di realizzare oltre 1000 nuove abitazioni a Gerusalemme Est, esortando entrambe le parti ad evitare “iniziative unilaterali” che potrebbero complicare il già difficile compito di riavviare i negoziati diretti. Tale posizione era stata ribadita dall’ex ministro degli Esteri Federica Mogherini e riproposta pochi giorni dopo nella sua prima missione da capo della diplomazia europea, proprio in Medio Oriente. In quell’occasione, Lady Pesc aveva chiesto al premier israeliano Benyamin Netanyahu di fare “marcia indietro” sugli insediamenti a Gerusalemme est e Cisgiordania.
La mossa di Israele – che ripropone bandi di gara andati a vuoto mesi fa – ha riacceso lo scontro con i palestinesi che hanno condannato la scelta, ma anche con la comunità internazionale, in particolare gli Usa. Con l’alleato americano pesa sempre più, tra l’altro, la decisione del premier Benyamin Netanyahu di accettare l’invito dello speaker repubblicano di parlare il prossimo 3 marzo al Congresso sulla necessità di nuove sanzioni contro l’Iran e il suo programma nucleare. Una scelta che ha spinto il presidente Barack Obama e il suo ministro degli esteri John Kerry a preannunciare in maniera chiara di non avere alcuna intenzione, per correttezza istituzionale, di incontrare il premier israeliano a due settimane dalle elezioni politiche nello stato ebraico. E lo stesso hanno fatto deputati democratici chiedendo a Netanyahu di rinunciare al viaggio.
Ma anche in Israele – alle prese due giorni fa con la fiammata di guerra sul Golan dopo l’attacco degli Hezbollah – l’annuncio della riproposizione degli appalti, resa nota dall’ong Peace Now, ha suscitato le proteste dell’opposizione al governo Netanyahu e al suo ministro dell’edilizia, il nazionalista religioso Uri Ariel. Gli appalti riguardano gli insediamenti cisgiordani di Kiryat Araba (102 alloggi), Adam (114), Elkana (156), Alfei Menashe (78). Includono anche Maale Adumim (nella zona E1, già fortemente contestata da Usa, Europa e palestinesi) ed Emmanuel, dove saranno però costruiti un albergo ed uffici vari. Ma anche nel rione ebraico di Ghilo a Gerusalemme est – ha aggiunto Peace Now – sono in fase iniziale di progettazione altri 93 alloggi.
Da Ramallah il negoziatore capo dell’Olp Saeb Erekat ha condannato la decisione ed ha esortato la comunità internazionale a riconoscere lo stato di Palestina come risposta all’annuncio di Israele. Poi ha chiesto che siano “banditi tutti i prodotti di colonie e istituzioni legati direttamente o indirettamente all’occupazione israeliana e alle politiche di apartheid”. Per Peace Now si tratta di una mossa pre-elettorale “in vista delle politiche del 17 marzo. Dopo aver imbarazzato l’amministrazione Obama con l’invito al Congresso, Netanyahu dà adesso – ha motivato l’ong – un altro schiaffo in faccia agli americani e mostra che Israele non ha rispetto verso il suo più stretto alleato”. Infine l’accusa a Netanyahu e ad Ariel “di cercare ogni minuto per mettere in campo fatti compiuti e prevenire una soluzione diplomatica”.
Anche Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Usa ed ora candidato per il nuovo partito ‘Kulanù, si è espresso contro le nuove case che non servono “alle relazioni di Israele con l’America e al sostegno internazionale”. Dello stesso avviso Zahava Gal-On, presidente del partito di sinistra ‘Meretz’ che ha attaccato “il governo estremista di Netanyahu e Bennett”, il leader del partito nazionalista religioso ‘Focolare ebraico’ di cui fa parte Uri Ariel.