La ripresa degli Stati Uniti impone al sistema europeo una scelta: continuare a difendere i salari e la stabilità senza arrestare la decrescita o accettare di avere meno certezze e tutele per inseguire la crescita
L’economia americana cresce rapidamente, le diseguaglianze aumentano e la disoccupazione è quasi azzerata, vicina al 6 per cento, soglia simbolica della disoccupazione “volontaria” (anche se negli Stati Uniti comprende lavori molto precari e molto poco pagati). L’attuale tentativo del presidente Barack Obama di tassare un po’ di più i super ricchi è lodevole, ma non cambierà certo il quadro complessivo di una distribuzione del reddito molto squilibrata.
L’Europa è in crisi da sette anni, ha livelli di disoccupazione mediamente doppi di quelli americani, e in alcuni casi del tutto intollerabili soprattutto per le fasce giovanili. Abbiamo meccanismi di protezione degli occupati che in America se li scordano, e una forte presenza sindacale, con solide ramificazioni nella sfera politica. In America invece il lavoro è notoriamente poco protetto, i sindacati nel settore privato praticamente non esistono più, si può assumere e licenziare da un giorno all’altro. Ma un’altra grande differenza è costituita dalle politiche macroeconomiche: in Europa sono restrittive, e generano una pressione fiscale altissima con effetti che approfondiscono la crisi (ormai persino il Fondo monetario internazionale e l’Economist su questo sono d’accordo). Il Quantitative easing di Mario Draghi, cioè l’acquisto massiccio di titoli di Stato annunciato dalla Bce la scorsa settimana, può essere utile, ma il quadro di fondo non cambierà molto. Obama invece, quando la crisi è emersa, ha speso subito quasi 800 miliardi di dollari in investimenti pubblici, soprattutto manutenzione dell’esistente e sostegno alle imprese (noi in Europa possiamo contare soltanto su 21 miliardi di euro reali, con il fantasioso piano Juncker). E anche il quantitative easing americano è stato robusto e incondizionato.
Fulmini e saette, negli Usa, da parte dell’ideologia repubblicana, che la ha avuta vinta elettoralmente, prendendo il controllo sia della Camera che del Senato, contro l’evidenza di un clamoroso successo economico, successo che crea le premesse anche di controllo fisiologico dell’indebitamento dello Stato (l’uscita dalla cosiddetta“trappola di liquidità”). Deboli proteste da parte dei progressisti democratici, il premio Nobel Paul Krugman in testa, che avrebbero voluto politiche di spesa ancora più aggressive, che tuttavia erano politicamente impossibili.
Guardando l’evoluzione della situazione economica mondiale, sembra evidente che la “risposta” americana sia non solo più efficace, ma anche l’unica sostenibile in prospettiva. La domanda si dimostra estremamente variabile e fluttuante, con tipologie e localizzazioni geografiche instabili. Il mercato asiatico, quello russo e dei Paesi arabi, oggi in crisi per il crollo dei prezzi petroliferi, l’Africa che dà segni di crescita molto significativi, il Brasile che prima si espande rapidamente e poi declina, ecc. Ma nel complesso sembra un processo di “distruzione creativa” (cara a Joseph Schumpeter, e un po’ anche a Lev Trozky): il reddito pro capite mondiale cresce nonostante la crisi, e i poveri continuano a diminuire in valori sia assoluti che percentuali sulla popolazione mondiale (erano 2 miliardi, oggi sono la metà). Nel frattempo le diseguaglianze nei singoli Paesi aumentano a favore dei capitalisti (confermando la tesi di Thomas Piketty, da questo punto di vista) mentre diminuiscono tra i Paesi ricchi e quelli poveri. Poi c’è la componente tecnologica che si aggiunge alla variabilità geografica della domanda: come all’inizio del secolo scorso, siamo in una fase molto dinamica ed evolutiva in tutti i settori, basta citare l’informatica, l’energia o la biologia (a parte il superconservatorismo europeo in questo campo, che ha anche forti connotazioni anticoncorrenziali).
Tornando all’Europa e a noi: sembra proprio che l’epoca d’oro del lavoro stabile e protetto, con piena occupazione, in un mercato mondiale aperto sia insostenibile. In Europa il trade-off è crudele: occupazione e crescita contro diminuzione dei salari reali e della stabilità. Una qualità della vita che si americanizza nel bene e nel male: a fronte di prospettive di un maggior reddito complessivo, maggiori disuguaglianze sociali, e minori certezze. Un brutto vivere, forse. Ma l’alternativa europea non sembra più tale e la spaccatura sociale della qualità della vita tra occupati protetti e disoccupati è forse peggiore di quella americana. Se c’è piena occupazione e il padrone mi maltratta, gli mostro il dito medio e trovo un altro lavoro. Provate a farlo in Europa…
Certo, l’Europa dovrebbe innanzitutto seguire l’America per le politiche macroeconomiche e, forse, per rendere meno crudele l’impatto della liberalizzazione piena del lavoro, potrebbe pensare a forme di “reddito di cittadinanza”, per mantenere una differenziazione virtuosa col modello americano. Ma questo, certo, è un altro discorso.
Da Il Fatto Quotidiano del 28 gennaio 2015