Sergio Mattarella fa parte della nostra storia, della vecchia Antimafia: dall’assassinio di suo fratello nacque il rinnovamento della Dc palermitana, di cui egli fu protagonista e Leoluca Orlando il frutto principale. La primavera di Palermo mescolò esemplarmente anime diverse, da Democrazia Proletaria alla teologia della liberazione, dai sessantottini ai salesiani. Non fu (come la Rete) priva di ombre, soprattutto nel politicantismo che ogni tanto tornava a galla nei momenti più impensati ma fu – nel complesso un’esperienza non solo positiva, ma addirittura rivoluzionaria. La Rete, che ne fu la proiezione nazionale, fu l’unico tentativo realistico di fare una sinistra nuova (molto più dei contorcimenti ex-comunisti e degli improbabili movimenti più o meno “antagonisti”) e fallì per inadeguatezza dei protagonisti, non del progetto. Il movimento antimafia diluì le sue connotazioni politiche (salvo che nell’”antimafia sociale”, per esempio la nostra) e fu testimonianza civile, più che progetto. La Seconda Repubblica, quandò arrivò, perciò nacque monca.
Mattarella, in tutto ciò, fu figura laterale ma dignitosa. Non tradì mai i valori essenziali da cui era partito (fu fra i pochissimi antiberlusconiani veri di quegli anni) ma non riuscì mai a liberarsi del tutto dallo status di notabile dc da cui era partito. Da ciò diverse cadute, di cui la principale – come ricorda l’Associazione Rita Atria – fu il sostegno dato al notabile Vincenzo Culicchia, accusato da Rita Atria di collusione mafiosa, e poi assolto, ma dopo un processo che ne aveva messo in luce comportamenti, amicizie e attività assolutamente non compatibili – moralmente, anche se non penalmente – con la difesa che ne aveva fatto Mattarella.
Adesso, molti di noi esultano per l’elezione di Sergio, persona perbene, non traditore della Repubblica, legato all’antimafia; dimenticando, in questo sentimento, la povera ragazzina di Partanna lasciata sola. Altri invece si fermano solo a quell’episodio, marcandolo senz’altro come connivenza. Negli uni e negli altri c’è una partecipazione emotiva grandissima, una tensione morale che rende ben difficile un giudizio storico globale.
A un livello inferiore, sul piano della politica agita, invece c’è quasi unanimità sul fatto che l’elezione di Mattarella sia una svolta, una vittoria di Renzi, un’assoluzione anzi della post-Repubblica di cui Renzi (con Scalfari, Napoletano, Monti, Berlusconi) è stato duro ed esplicito fondatore. Qui, io sono assolutamente persuaso del contrario. Renzi (ma meglio sarebbe dire Monti-Letta-renzi, perché di un unico governo si tratta) non è il Blair italiano, ma l’insieme delle due fasi (complementari, ma distinte) Thatcher e Blair. La prima smantellò la costituzione esistente, ammazzò i sindacati e e ridimensionò il parlamentarismo; il secondo, costruì una costituzione nuova e più arretrata, basata sull’egoismo sociale e sul dominio assoluto dei poteri. “La società non esiste” fu l’ideologia di entrambi e “imprenditore eroe nostro” ne fu la politica.
Il patto del Nazareno, coi due (non eletti) governi precedenti fu la fase thatcheriana. Adesso comincia la seconda, quella più propriamente blairista. Le differenze sono minime, per chi le vive dal basso e non da lord; le nostre vecchie repubbliche keynesiane, la costituzione reale di Churchill o di Pertini, in ogni caso sono state uccise, e con loro tutto ciò che nella politica difendeva la vita comune di noi commoners, i nostri modesti benessere e diritti. Regna Marchionne, e tutto il resto è poesia.
L’avvenimento di questi giorni non è quindi la dolce elezione del galantuomo Mattarella ma l’episodietto squallido dell’entrata in politica – ad esempio – di un Della Valle. La Repubblica, non illudiamoci, non c’è più; sarà una strada ben lunga ricostruirla; in essa l’antimafia sociale avrà una parte e qui, non altrove, noi ci faremo un giudizio sul “presidente antimafia” Mattarella: sine ira nec studio, ma con la determinazione di chi i tempi di Falcone e Pertini li ha vissuti, e non li dimenticherà facilmente.