In questi giorni fa enorme scalpore la notizia del possibile crollo della “prova regina” contro Massimo Giuseppe Bossetti nella vicenda di Yara Gambirasio, la tredicenne uccisa il 26 febbraio 2011 in provincia di Bergamo. Per l’ennesima volta la stampa discute del valore della prova del Dna come se questa, a differenza degli strumenti probatori, debba rappresentare un elemento certo a prescindere da tutto. Con questa illusione tante indagini tradizionali vengono tralasciate con il rischio che se qualcosa va storto tutto crolli.
Questo è un gravissimo errore: la prova del Dna, come la testimonianza, può essere un elemento decisivo ma tutti conoscono il rischio delle false impressioni e degli errori di riconoscimento; per il Dna è lo stesso: si tratta di un materiale biologico che può essere trovato sulla scena del crimine nelle condizioni più varie ed a seconda di queste può offrire risultati probatori assai differenti tra loro. Ed ancora: come la testimonianza può subire distorsioni nella fase del recupero delle immagini, così le operazioni di laboratorio per l’analisi della traccia possono portare ad un prodotto non completamente affidabile. Ciò detto in questo caso specifico c’è qualcosa che appare realmente incomprensibile.
Ritengo che un esempio faccia comprendere molto meglio di qualsiasi altra considerazione. Si immagini di trovare sul luogo del delitto la carta d’identità intestata ad un certo signore e poi, aprendo il documento, si scopra che la foto ed i dati non appartengono a costui ma ad un terzo e che di questo terzo non vi siano altri elementi sulla scena. Per andare oltre la metafora: il Dna cellulare di Bossetti contiene un Dna mitocondriale di un’altra persona e non esiste, sulla scena del crimine, traccia di Dna cellulare di questo (nuovo) ignoto, né Dna mitocondriale di Bossetti. Ed il Dna vive assieme a quello mitocondriale, salvo separarli con un’operazione non certamente possibile per l’uomo comune.
Ma c’è di più. Il Dna cellulare di Bossetti è stato ritenuto “fresco”: come è possibile che, unitamente ad un Dna cellulare fresco, non vi sia anche la parte di corredo genetico mitocondriale che, oltretutto, ha una resistenza maggiore alla degradazione (il Dna mitocondriale viene utilizzato per identificare i resti umani dell’antichità)? Non è finita: com’è possibile che dopo tanti mesi dopo l’omicidio il Dna cellulare sia così ben conservato, se gli agenti atmosferici hanno distrutto quello mitocondriale? Ciliegina finale: nessuno potrà più ripetere gli esami perché il materiale è stato utilizzato tutto dalla Procura.
Certamente questa vicenda potrebbe scatenare l’interesse del maggior organo di vigilanza al mondo sull’utilizzo della prova del Dna e cioè l’Innocence Project. Nel caso di specie non è in questione, come si dice genericamente, la prova del Dna ma l’attenzione che vorrà porre su accadimenti tanto stupefacenti il giudice chiamato a decidere sulla colpevolezza dell’imputato. In questo senso ritengo sia necessario l’apporto decisivo della famiglia del detenuto, per il tramite di esperti in scienze forensi (genetisti e criminologi). Quanto è emerso apre infatti scenari assai contorti.