Così, in ordine sparso. Perché non mi sono mai occupata di Turchia, sono qui per la Siria – però è più di due anni, in un certo senso, che vivo qui. E quindi.

Intanto, una correzione. Questo nuovo palazzo presidenziale di Ankara, è arrivato un comunicato stampa: non ha mille stanze, non è vero – sono 1150. Ed è un po’ tutto in proporzione, qui. La Tv di Stato, durante l’ultima campagna elettorale, ha dedicato a Erdogan, che dopo 11 anni da primo ministro è diventato presidente, tipo Putin, 553 minuti. Tre al suo sfidante. La Cnn invece, che ha un’edizione locale, un’edizione turca, durante le manifestazioni di Gezi Park, un anno fa, ha trasmesso un documentario sui pinguini: e quindi ora che i curdi hanno protestato, durante l’assedio di Kobane, per chiedere l’apertura della frontiera, la distribuzione di aiuti umanitari, e negli scontri con la polizia sono stati uccisi in 40, ha trasmesso un documentario sulle api. Erdogan ha preferito leggersi i diari di Cristoforo Colombo. Quando è arrivato in America, ha detto, la prima cosa che ha visto, quando all’orizzonte gli è apparsa Cuba, è stata una moschea. Su una collina. O a maggio, i 301 minatori morti. Quando ha detto che sono cose che capitano. 204 minatori inglesi, ha detto, sono morti nel 1838, e altri 361 nel 1866. Altri 290 nel 1894. Sono cose che capitano, ha detto. Capitano ovunque. E un mese fa, poi, quando ha accolto Mahmoud Abbas con tutti gli onori di un capo di stato. Che Mahmoud Abbas, povero, sono sessant’anni che aspetta, i palestinesi gli hanno anche comprato il vestito buono: era la prima volta: e invece Erdogan si è presentato con 16 guerrieri ottomani con tanto di elmetto con pennacchio, che è un po’ come se vai a Oslo per il Nobel e trovi i norvegesi addobbati da vichinghi. E poi ha dichiarato guerra a Twitter. Erdogan, dico. Ha promesso che il mondo sperimenterà la potenza della Turchia.

Twitter gli ha bloccato l’account.

Sono lontani i tempi in cui guardavamo alla Turchia come un modello. In cui studiavamo le teorie di Ahmet Davutoglu, all’università, ministro degli esteri, oggi primo ministro, convinti che la Turchia potesse conciliare Islam e democrazia. O meglio, laicismo e tradizione. E avere relazioni forti, solide, con l’Occidente, ma anche una politica estera autonoma. Stare davvero nel mezzo, a conciliare Oriente e Occidente. Sono lontani, lontanissimi i tempi in cui la Turchia teneva testa a Israele per Gaza e la Mavi Marmara. Oggi la sua politica estera si riassume nel giocare pericolosamente con gli jihadisti. Erdogan non si è unito ai bombardamenti contro l’Isis. Il nemico numero uno è Assad, dice: o si bombardano entrambi, o non si bombarda nessuno. Ma il problema è che rischi l’espulsione, a scrivere la verità, perché siamo qui con un semplice visto turistico, controllati passo passo: e perché la verità è che la Turchia di fatto sostiene l’Isis, a cui ha consentito di creare una sterminata base logistica, e una sterminata retrovia, lungo gli 822 km di confine con la Siria. Non c’è volo per Hatay, volo per Gaziantep che non sia carico di jihadisti. In città come Akcakale, come Reyhanli, noi giornalisti stranieri non possiamo più neppure avvicinarci.

Erdogan cerca di sfruttare l’Isis, è evidente, equilibrista dell’ambiguità, per conquistarsi un ruolo internazionale – certo che l’Isis rispetterà il patto implicito, e non colpirà mai in questa Turchia di cui ha così bisogno. Ma la storia insegna che sono stati sempre gli jihadisti, alla fine, a giocare con chi li ha appoggiati: mai il contrario.

Il 6 gennaio a Istanbul si è avuto il primo attacco suicida.

Si respira un’aria strana a Istanbul. Città bellissima, e molto diversa dal resto della Turchia, molto più avanzata – città cosmopolita: e stanca di Erdogan. Ma per adesso prevale la paura. Paura non tanto della repressione, di un giro di vite di esercito e polizia, non è questo a frenare possibili movimenti di protesta – è paura piuttosto dell’instabilità.

Ma dall’esterno è facile criticare, mi dice un diplomatico. Dopo averci lasciato fuori dall’Europa: e ora siete tutti qui a parlare della deriva della Turchia. E non è che ci avete semplicemente risposto no, ci avete umiliato con anni e anni di negoziati inutili, dice – 32, per la precisione: la procedura di adesione della Turchia è stata avviata nel 1983. “Ospitiamo quasi due milioni di rifugiati. Più altre centinaia di migliaia di siriani non registrati”, dice. “Fino a oggi abbiamo speso 4 miliardi di dollari. E non siamo la Svezia. Siamo un paese in cui l’assistenza fornita ai profughi spesso è superiore a quella fornita ai nostri poveri”.

La lira, dall’inizio della guerra, ha perso il 40 percento del suo valore.

L’Italia avrebbe pagato un prezzo del genere per l’Albania? Per la Bosnia?, dice.

Ora le aree di confine, è vero, sono terra di nessuno. Ma sai l’Italia nel 2014 quanti rifugiati siriani ha accettato?, dice. 170.

“E’ facile non sbagliare mai, per chi sta fermo e non fa niente”.

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