Meno vergogna e più prevenzione. Così la depressione in gravidanza e post partum (tema affrontato anche nel progetto de ilfattoquotidiano.it Tutto parla di voi) esce allo scoperto. In Italia delle 550mila che partoriscono ogni anno, 80mila (cioè una su sette) accusano i sintomi. Ma solo una su quattro riceve un trattamento adeguato. Nella maggioranza dei casi (66mila) il disturbo viene trascurato, a volte neppure riconosciuto. Che l’istinto materno prevalga su qualsiasi altro stato mentale è una convinzione errata ancora molto diffusa. All’origine c’è un senso di frustrazione e di insicurezza di lunga data che la maternità porta a galla e peggiora, compromettendo la relazione tra madre e figlio.
In prima linea nell’aiuto delle madri più in difficoltà è la Regione Lombardia, che due anni fa ha lanciato un progetto pilota di assistenza a domicilio. Un team di professioniste del Centro psiche donna dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, composto da una pediatria neonatologa, una psichiatra, una psicologa cognitiva, e i volontari dell’associazione per la salute mentale Itaca si sono presi cura di 20 nuclei familiari. Soprattutto stranieri, poco integrati e in condizioni economiche disagiate.
“Abbiamo garantito visite mensili e sono stati creati dei gruppi di terapia anche per i padri – spiega Claudio Mencacci, direttore del progetto e del dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli -. L’intervento ha funzionato, per questo abbiamo chiesto alla Regione di farlo durare fino a ottobre (la scadenza era fissata a febbraio, ndr). Ci auguriamo che poi diventi un modello di cura definitivo. Che magari coinvolga anche gli altri centri d’eccellenza, sparsi nelle varie regioni, che nel 2010 hanno aderito al progetto ‘Depressione in gravidanza e nel post partum’ promosso da Onda, l’Osservatorio nazionale per la salute della donna, con il patrocinio della presidenza del Consiglio e il ministero della Salute”. Da cui è nato il portale Depressionepostpartum.it, punto d’appoggio per le neomamme in crisi, che offre un’analisi del problema e previa registrazione consente all’utente di rivolgere domande a degli specialisti in forma anonima.
Il Centro psiche donna, undici anni fa, è stato uno dei primi in Italia ad attivarsi. “Abbiamo dato legittimità alla patologia – sottolinea Roberta Anniverno, psichiatra e psicoterapeuta del laboratorio -. Dopo le campagne di sensibilizzazione, il trend delle pazienti è in crescita. In media ne assistiamo 100/150 all’anno”. Il target? “Donne di medio e alta estrazione sociale, con ruoli dirigenziali, coniugate, età compresa tra i 35 e 40 anni, molte alla prima gravidanza. Gli appuntamenti sono settimanali o una volta ogni 15 giorni – aggiunge -. La psicoterapia spesso è affiancata alla cura farmacologica e dura fino ai due anni di vita del bambino”. Quali sono i sintomi più comuni? “Lo stato depressivo si manifesta gradualmente, con crisi di pianto, la percezione di non essere adeguata a fare la mamma, l’umore cattivo, insonnia, inappetenza, igiene e look trascurato, disinteresse nei confronti del bambino, magari si dimenticano di cambiarlo, lavarlo, portarlo dal pediatra”.
Le cause sono molteplici. Tra queste Anniverno individua una predisposizione genetica, condizioni familiari di disagio, la solitudine. “Magari hanno già espresso il loro malessere al medico o al marito ma sono state ignorate”. I rischi per la donna che trascura la depressione “è l’incapacità di costruire attaccamento affettivo con il bambino e di trasmettergli stabilità emotiva”. Nei casi più estremi, “sorgono pensieri autolesivi per sé”.
L’infanticidio, invece, dipende da cause diverse. “Non c’entra con la depressione, ha a che fare con disturbi deliranti o altre psicopatologie più gravi”. Il pericolo per il bambino è quello “di sviluppare una personalità ansiosa e che sia capriccioso, un modo per attirare l’attenzione della madre assente”. Perché della depressione post partum se ne parla solo adesso? “Perché si è infranto lo stereotipo secondo cui la nascita di un figlio rappresenta per forza lo scopo della vita di una donna. Non è così per tutte infatti. E non è vero che aumentando il progesterone nel sangue la donna è per forza più felice. Francia, Inghilterra, Germania e altri Paesi del nord Europa ci sono arrivati prima di noi. Là da 30 anni esistono delle unità di ricovero per mamma e bimbo, private e pubbliche, di una decina di letti”.
Silvia, 48 anni, di Viterbo racconta: “Sono rimasta incinta nel 2002. Soffrivo già di depressione, l’attesa di mia figlia l’ha esasperata. Ero convinta che diventare madre fosse la soluzione, mi ero sbagliata”. Silvia era entrata in uno stato di apatia, “di morte cosciente”, lo definisce lei. “Quando è nata la bambina non riuscivo a prenderla in braccio, non la stimolavo, non le trasmettevo amore, avevo paura di tutto”. Allora si è trasferita a casa dei genitori per essere aiutata. “Per i primi due anni non mi sono sentita una madre. A un certo punto ho capito che dovevo prendere in mano la situazione. Sono andata da uno psichiatra, ho fatto un anno di sedute e due mesi di terapia con gli psicofarmaci. Poi sono rinata, oggi il rapporto con mia figlia è ottimo”.
A segnare il cambio di rotta è un’altra iniziativa: Rebecca blues, il primo social network per la cura e la prevenzione della depressione in gravidanza e perinatale, pensato da Strade onlus e Rebecca fondazione e presentato a Roma lo scorso ottobre. Si tratta di una app per smartphone e tablet, che è già stata scaricata da oltre 200 utenti e con cui le mamme possono iniziare un percorso di formazione, monitoraggio e autodiagnosi con il supporto di un medico. Partirà presto un progetto di screening nazionale che vede come capofila l’ospedale San Camillo di Roma. “È uno strumento che rispetta l’intimità della donna – dichiara Antonio Picano, dirigente psichiatra del San Camillo – e al contempo valorizza il legame con il suo medico di fiducia, a scelta tra quello di base, il ginecologo, lo psichiatra e il pediatra”.