Sono giovani di talento, narcisisti spregiudicati e/o esteti dal fiuto fine, i e le fashion blogger che hanno avuto la capacità, l’iniziativa, e nondimeno la possibilità economica, di autopromuoversi, facendo di sé, del proprio guardaroba, un autentico marchio di fabbrica. I critici di settore ne parlano come dei nuovi digital fashion influencer, e loro tutti, coi post che quotidianamente condividono sui social, sono capaci di orientare, pur se in diversa misura, la massa dei compratori.
Eppure oggi, nel circuito della moda, c’è chi è pronto a scommettere sulla loro “morte mediatica”, profetizzandone l’estinzione entro la fine della decade: da barnum dei fashion blogger, gli anni ’10 del 2000, a bara virtuale degli stessi. Fra i sostenitori dello scacco ai blogger figura, ad esempio, il designer britannico John Richmond: “Ho come l’impressione che i riflettori su di loro vadano via via un po’ spegnendosi”, ha dichiarato nel corso dell’ultima edizione di Pitti Uomo, mentre più cauto è lo stilista italiano Giuseppe Zanotti, che al Corriere della Sera ha recentemente parlato di un’inversione di tendenza: “Il lavoro del blogger ora è generico, diventerà sempre più specifico”.
E se i numeri, almeno quelli italiani, tendono a sfatare la tesi catastrofista – con Chiara Ferragni nell’Olimpo degli under trenta più influenti al mondo secondo Forbes, e i connazionali Mariano Di Vaio e Riccardo Pozzoli premiati alla Stylight Fashion Influencer Awards di Berlino (rispettivamente come “miglior blogger maschile” per Mdv Style e “miglior business blog” con The Blonde Salad) -, l’altra teoria, quella dell'”evoluzione della specie-blogger”, macina consensi anche oltreoceano: “L’attività di blogging non sta affatto morendo, sta solo profondamente cambiando”, ha affermato Gala Darling, co-fondatrice di The Blogcademy, workshop per insegnare ai blogger come monetizzare on line. E Jennine Jacob, creatrice dell’Independent Fashion Bloggers, la community leader delle blogger di moda, conferma: “I blog sull’abbigliamento e gli accessori non sono affatto deceduti. Al contrario: proprio ora sono più popolari che mai”.
Tuttavia, mentre fervono i preparativi per la settimana della moda Usa, in allestimento dall’11 al 19 Febbraio 2015 nella Grande Mela, il Cfda (Consiglio dei Fashion Designer Americani) ha annunciato la volontà, a partire da quest’anno, di “rendere gli eventi più esclusivi, limitandone l’accesso”. Parola della vice presidente della New York Fashion Week, nonché direttore responsabile Catherine Bennett, che ha riportato al Wall Street Journal la propria ostilità per l’imbarbarimento dell’evento fashionista in «qualcosa di più simile a uno zoo, a causa della crescente presenza delle blogger alle sfilate».
Ciò non significa che i blogger, da qualcuno rinominati “fashion guerillas“, non rappresentino, non più, delle realtà lucrative. E’ infatti un amo et odio, quello in atto fra le case di moda e i giovani comunicatori digitali, che si nutre di profitti e conflitti: da un lato lo scambio di visibilità reciproca, dall’altro il rischio di sovraesposizione mediatica.
Ma se agli inizi del fenomeno, fra il 2010 e il 2012, i brand di moda non sapevano ancora come gestire la presenza dei blogger, accreditandoli randomicamente alle sfilate e nei back-stage degli eventi, oggi ciascuna azienda dispone di corporate communication manager, ovvero responsabili della comunicazione d’impresa, in grado di selezionare i “publisher” – i quali hanno forato, in tutto, il tetto dei 2 milioni di presenze attive, secondo il motore di ricerca Technorati -, in base al proprio target e al “Roi” (return-on-investment, cioè il ritorno aziendale sull’investimento). Per evitare bellicosi sovraffollamenti sui “front row” delle sfilate, e dissapori fra giornalisti di moda e self-made fashionist. Rimarcando finalmente, e nuovamente, quella linea di confine sempre meno sottile fra insider e non addetti ai lavori, il cui baricentro è troppo spesso spostato su di sè-persone, anziché sul loro modo “personale” di intendere, quindi instradare, l’industria della moda.