Difficilmente ho assistito per due volte allo stesso spettacolo. E’ capitato con l’“Ubu roi” di Roberto Latini visto al suo debutto qualche stagione fa, con la produzione del Teatro Metastasio di Prato, e che adesso ha ripreso nuova vita, dopo il Premio Ubu al regista e il festival a Bogotà dove ha avuto repliche affollatissime. Ci sono spettacoli felici e fortunati dove tutto si incastra alla perfezione. E’ questo il caso: intuizioni registiche, attori straordinari (su tutti una Madre Ubu-Ciro Masella Signora in rosso, cinica e affamata di potere che ce la fa assomigliare alla filippina Imelda Marcos o la rumena Elena Ceausescu), inserti pop, scene raffinate, scelte musicali azzeccate, costumi illuminati (di Marion D’Amburgo), cura nei dettagli, ricercatezza stilistica e concettuale, grande maturità artistica da parte degli interpreti principali, citazioni e follia sparse come zucchero a velo in un caleidoscopio-calembour di espressioni e facce, di specchi e rimandi, di ritorni e incroci, per un respiro teatrale che finalmente può essere liberato.
Per il dovere di cronaca facciamo un passo indietro con un doveroso riassunto schematico sulla vicenda legata alla produzione della piece: una gestazione difficile prima, con il contratto firmato dal precedente direttore del Met Federico Tiezzi, accordo che l’accoppiata dei direttori Massimo Luconi- Paolo Magelli voleva in prima istanza far saltare. Successivamente effettivamente lo Stabile della Toscana produsse l’“Ubu” di Latini ma i problemi continuarono a persistere per quanto riguardava la distribuzione. Infine il Met ha lasciato lo spettacolo nelle mani della compagnia Fortebraccio Teatro per poi “ricomprarlo” in occasione delle nuove messinscene pratesi. Intanto il gruppo sta girando per i teatri per le nuove date con un fondale che non è quello originario, quello che, si dice, dovrebbe essere lo stesso usato per un altro spettacolo in calendario al Fabbricone di Prato.
Allora gridammo al miracolo, e lo facciamo oggi a distanza di un tempo (tre anni) che non ha scalfito minimamente la freschezza dell’impianto. Al suo debutto scrissi che la parte che si era ritagliato Latini era troppo invadente, lui che dentro il testo di Alfred Jarry prendeva le sembianze di Carmelo Bene nel suo Pinocchio con catena al collo da Melampo, cosa che oggi non risulta così distorcente o “infastidente” anzi rilancia, raccoglie, cuce, racchiude quadri e scene con quella lucida spensieratezza, con quella lampadina della ragione che si accende e acceca e abbaglia destando sempre viva e vigile l’attenzione, la curiosità vivace, la gioia infantile. Un grande gioco, un grande patto nasce e cresce (e sfugge di mano, finalmente, meravigliosamente) sulla scena (mirabile quella architettata da Luca Baldini) e tra la scena e la platea, di fiducia e condivisione in un percorso che non ha una strada segnata ma ne ha infinite.
Teatrale, nel senso più alto del termine. Teatrale come eversivo, teatrale come geniale, teatrale come non terreno, quindi vicino alle nuvole, teatrale come un imbarazzo dato dal non saperlo categorizzare, teatrale come non imbrigliabile, teatrale come eccedente qualsiasi definizione, teatrale come stupore, teatrale come senza chiedersi “che cosa significa”, teatrale come eccitante, teatrale come rendere l’impossibile possibile e credere all’incredibile. Così la pesca miracolosa che apre la sarabanda di scimmie (le maschere indossate potrebbero vagamente ricordare anche il regista Peter Brook) gorgoglianti primordiali e gutturali, che sembrano uscite da “2001 Odissea nello spazio”, ma abbigliate e agghindate come sacerdoti se non addirittura Papi nelle loro vesti candide, in questo post atomico limbo catastrofico dove resiste soltanto un bianco stordente e straniante in un contesto da azzeramento bucolico e ancestrale, porta, come in un flash back, al prima, all’autodistruzione della nostra società, alla stupidità del Male, alla violenza barbara degli uomini sui propri simili, alla guerra fredda, alla vendetta.
Pochi tocchi di rosso (come “La fanciulla” di Vermeer) bastano a raccontare dell’odio e del sangue corso e versato inutilmente mentre tutto attorno è un gran Carnevale istrionico jodoreskiano sopra le righe, eccessivo, esplosivo. Il Re nel suo trono-carriola, le scarpe leopardate, le conchiglie pubiche da “Arancia meccanica”, i continui rimandi a Shakespeare, i pon pon, i palloncini, le pellicce, i samurai nipponici, la scopa della Befana, le corazze da Pupi siciliani, il “tesssoro” dal “Signore degli anelli”, i nasi da clown in una gigantesca girandola che però mantiene sempre teso il filo riconoscibile del sotto testo: “il sangue chiama sangue” come ci conferma lo scheletro annerito bruciacchiato (sembra uno dei duemila cadaveri trucidati e poi dati alle fiamme in Nigeria dai terroristi islamici di Boko Haram) abbracciato nella danza macabra dal “narratore” Pinocchio. Il tutto ha un sapore biblico ed epico, che va ben oltre l’attualità. “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”, Gandhi.
Castello Pasquini, Castiglioncello