Eppure sono passate poche settimane da quando eravamo tutti “Charlie”, tutti con la matita in mano a sperticarci nel difendere la libertà di espressione, a lanciare strali contro l’intolleranza fondamentalista, contro l’arretratezza del mondo islamico, incapace di sopportare che qualcuno potesse insultare o deridere i suoi valori. Politici, giornalisti, intellettuali, tutti in fila a omaggiare il diritto di critica. Agli altri, però. Infatti, il 28 febbraio, peraltro all’indomani della Giornata della memoria (corta) presso il Tribunale di Torino si è celebrato l’inizio del processo allo scrittore Erri De Luca colpevole di aver detto che è giusto boicottare il progetto Tav per la tristemente celebre linea Torino-Lione. Non per aver ucciso, né malmenato qualcuno, non per avere compiuto chissà quale violenza, ma solo per avere espresso una opinione a titolo assolutamente personale, rispetto a una questione che peraltro vede impegnati moltissimi abitanti della valle di Susa (e di molte altre parti d’Italia) in una lotta per difendere l’ambiente in cui vivono. Chissà quante vignette avrebbero potuto fare i compianti disegnatori Charlie Hebdo se fossero stati in Italia, su quel progetto, che di elementi per essere deriso e criticato ne presenta in abbondanza, ma qui nessuno degli pseudo paladini della libertà d’opinione ha impugnato la matita per dire “Io sono Erri”. Lo hanno fatto in molti dal basso, attivisti, simpatizzanti, gente semplice come noi, ma non quelli che poco prima sgomitavano per guadagnarsi un lauro da libertari. Anzi, i media, se si esclude questo giornale, hanno trattato il processo come una questione di second’ordine, nel migliore dei casi oppure si sono coraggiosamente schierati dalla parte dell’accusa, come tutte le forze politiche, esclusi i 5 stelle.
Forse perché Erri De Luca non è uno scrittore da salotti televisivi, forse perché non si concede alla banalità dei talk-show, perché si limita a fare con grande passione e dignità il suo mestiere di scrittore. Forse, o forse perché è uno dei pochi, pochissimi intellettuali che hanno scelto di non tacere, di rimanere coerente con gli ideali che lo hanno accompagnato tutta a vita e che lo sorreggono ancora con passione. E poi la questione Tav è scomoda, perché impone una riflessione di carattere non solo politico, ma anche e soprattutto culturale. Alla radice del tutto, infatti, non c’è solo un tunnel, ma un’idea più ampia e generale di quello che viene chiamato “sviluppo”. Una parola che più che una linea guida, è diventata una sorta di totem, sacro e intoccabile.
Con il dominio del capitalismo si è affermata una concezione dello sviluppo come processo naturale. Sviluppo è così diventato allora sinonimo di crescita, senza mai porre davvero dei limiti, pensato in chiave quantitativa e mai qualitativa. Anche nel caso del Tav, i termini dello scontro sono qualitativi da una parte, quantitativi dall’altra, ma con un paradosso. Dalla parte Tav vengono addotte motivazioni di carattere quantitativo, sorrette da studi e dati, che possono essere discussi, ma sono comunque dati; dall’altra se si va a ben vedere, le motivazioni sono piuttosto qualitative e mai motivate con dati concreti.
Ecco allora che l’idea di sviluppo si manifesta per la società occidentale non come ideologia o come scienza, ma come credenza. Credenza paragonabile ai miti delle popolazioni che noi chiamiamo “primitive”. Un’idea si discute, un mito no, pena l’intero crollo del sistema, della società basata su un’idea di crescita. Non a caso, nonostante i molti fallimenti, nessuno mette in discussione il concetto di sviluppo, anzi ogni fallimento diventa l’occasione di una nuova dilazione. E come ogni fede, anche lo sviluppo ha i suoi rituali, fatti di incontri tra i grandi della Terra (G8, G20, Davos), che continuano a tenere accesa la fiamma della speranza in un futuro migliore al di là di ogni logica conclusione.