Ci voleva un altro “cattolico democratico” al Quirinale perché in un discorso d’insediamento il tema della questione morale venisse evocato nell’aula di Montecitorio. Bisogna tornare al 28 maggio 1992, pochi giorni dopo che si era consumato il dramma dell’attentatuni mafioso al giudice Falcone, per sentire il “galantuomo” Scalfaro che ammonisce i parlamentari: “L’abuso di denaro pubblico è un fatto gravissimo, che froda e deruba il cittadino contribuente ed infrange duramente la fiducia dei cittadini: nessun male maggiore, nessun maggior pericolo, per la democrazia, che l’intreccio torbido tra politica e affari”. Parole profetiche, pronunciate di fronte a una classe politica plaudente ma già terrorizzata per le inchieste di Mani pulite, che lì a poco l’avrebbero falcidiata portando in breve alla liquefazione dei vecchi partiti di massa.
Ma il neo-Presidente Sergio Mattarella ha battuto ogni record: per quasi un decimo del suo discorso – convenevoli esclusi – si è concentrato proprio sul tema della lotta alla corruzione e alle mafie. Una battaglia da lui definita “priorità assoluta”, visto che “la corruzione ha raggiunto un livello inaccettabile. Divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini. Impedisce la corretta esplicazione delle regole del mercato. Favorisce le consorterie e penalizza gli onesti e i capaci”. Ed è solo unendo “l’azione determinata della magistratura e delle forze dell’ordine” con “una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere” che si potranno sconfiggere le mafie, che della corruzione sono nel contempo portatrici e beneficiarie, in una simbiosi perversa.
Ventitré anni dopo l’insediamento di Scalfaro dunque la questione morale è ancora il cuore del problema italiano, per quanto nel dibattito pubblico e nell’agenda politica il tema affiori e scompaia al ritmo degli scandali, inabissandosi tra una retata e l’altra – il 2014 resterà nella storia l’anno della Sacra Trinità dell’italica corruzione: Expo-Mose-Mafia Capitale. Anche durante il discorso di Mattarella gli applausi scroscianti non sono mancati. O meglio, sono mancati soltanto quelli degli assenti giustificati, come il presidente della commissione cultura, il deputato Giancarlo Galan, agli arresti domiciliari dopo aver patteggiato per le tangenti del Mose. E chissà se ad applaudire convinta c’era anche la “manina” finora anonima che nella bozza di decreto fiscale del governo aveva introdotto la soglia del 3 per cento di evasione dell’imponibile come “causa di esclusione della punibilità”. Di certo battevano le mani tutti quelli che negli ultimi due anni si sono dimenticati di riformare l’istituto della prescrizione per i crimini dei colletti bianchi, ad altissimo tasso d’impunità garantita, ma in compenso si preparano ad approvare una modifica del falso in bilancio che lascia intatti i capisaldi della depenalizzazione di berlusconiana memoria: “Modica quantità” di irregolarità di bilancio accettabile, procedibilità solo a querela. Mentre il pezzo forte della riforma dei reati di corruzione in cantiere è una misura impalpabile – ma buona per buttarla in pasto all’opinione pubblica: un ulteriore inasprimento degli anni di carcere previsti in astratto, ma che nessuno tra chi paga o incassa tangenti rischia in concreto di scontare.
In una maggioranza di governo nella quale è perduto chi non si muove alla velocità di un tweet, viene da chiedersi dove si siano rintanati gli invisibili “frenatori” della lotta alle mazzette. Di certo esistono, a giudicare dai fatti (e dalle omissioni), sono numerosi e coesi, hanno stretto un’alleanza di ferro con chi siede sugli scranni parlamentari di forze di pseudo-opposizione guidate da un pregiudicato plurinquisito eppure a breve elevato – se va in porto la riforma costituzionale – alla dignità di padre nobile della patria.
Per questo l’alto richiamo del Presidente Mattarella alla centralità dell’irrisolto coagulo di malaffare che ancora salda corruzione e organizzazioni mafiose, sprofondando l’Italia nella sfiducia, nel discredito internazionale, nella recessione, rischia di accumulare polvere negli stessi archivi dove da decenni si stratificano gli appelli scomodi. Proprio come le parole altrettanto nobili pronunciate da un altro Presidente appena eletto: “Ed è solo in questo modo che ogni italiano sentirò sui la sua Repubblica, la sentirà madre e non madrigna. Bisogna cioè che la Repubblica sia giusta e incorrotta, forte e umana: forte con tutti i colpevoli, umana con i deboli e con i diseredati”. Era il 9 luglio 1978, così parlava il partigiano socialista Sandro Pertini.