“Non lasciamo che i libri di testo che promuovono i ‘valori occidentali‘ entrino nelle nostre classi”. È quanto affermato dal ministro cinese della cultura Yuan Guiren di fronte a una platea costituita dalle più alte autorità delle migliori università cinesi. E ha aggiunto: “Non potrà mai essere consentito che le opinioni che attaccano o diffamano la leadership del Partito o che macchiano il socialismo entrino nelle nostre università ”. Sempre nello stesso discorso, il ministro ha invitato gli insegnanti a non lamentarsi in classe in modo da evitare di “passare emozioni negative ai loro studenti”.
Cosa esattamente si intenda per “valori occidentali” e come praticamente si intenda evitare che studenti di legge o di economia si formino nel XXI secolo senza accedere ai testi e alle teorie prodotte in Occidente non è dato sapere. Probabilmente le parole del ministro sono da intendere più come un avvertimento che come una concreta proposta di legge, ma sono un chiaro segno della riduzione degli spazi di discussione e di libertà che caratterizza l’era Xi Jinping. Anche nelle università.
A dicembre, la regione sudoccidentale del Guizhou ha addirittura proposto di installare telecamere a circuito chiuso nelle aule universitarie per monitorare la “correttezza” degli insegnamenti. Una settimana prima, un articolo del Quotidiano del Liaoning invitava i professori ad astenersi da commenti critici sul sistema politico cinese e sulla sua ideologia marxista. Titolava: “Insegnanti, non parlate così della Cina. Lettera aperta ai professori di filosofia e di scienze sociali”.
Xi Jinping ha formalmente preso l’incarico di presidente a marzo 2013. A maggio dello stesso anno, l’agenzia di stampa governativa Xinhua ha riportato un appello congiunto del ministero dell’istruzione e del Dipartimento di propaganda che in sintesi chiedeva che i professori fossero “rieducati” su ideologia e politica. Quello stesso mese il professore di legge Zhang Xuehong aveva scritto su Weibo, il twitter cinese, che lui ed altri insegnati dell’East China University of Political Science and Law erano stati invitati a evitare sette argomenti “scomodi”.
Meglio non trattare di democrazia, valori universali, società civile, liberismo, indipendenza dei media, errori commessi in passato dal Pcc (il cosiddetto “nichilismo storico”) e di contraddizioni tra le politiche di apertura e riforme e la natura socialista del regime. Gli internauti ormai li chiamano “i sette innominabili”, in cinese “qibujiang”
Il professore nel frattempo è stato espulso dalla sua università. E non è un caso isolato. Un destino simile è toccato in sorte all’economista Xia Yeliang, che ha perso il suo incarico alla prestigiosa Università di Pechino per aver inneggiato sul suo blog alle riforme democratiche e a quelle dello stato di diritto. Più recentemente l’economista uiguro Ilham Tohti è stato condannato all’ergastolo perché, secondo l’accusa, avrebbe promosso l’ideologia del separatismo tra i suoi studenti. Le registrazioni delle sue lezioni sono state portate a processo come prova della sua colpevolezza.
Ma nonostante gli sforzi, la stretta ideologica del governo è in qualche modo anacronistica. Mentre il governo aumenta il controllo sulle università cinesi, aumentano gli studenti che vanno a studiare all’estero. E le mete più ambite sono proprio le grandi università americane. Solo nel 2014 hanno ospitato circa 275mila studenti cinesi, il 17 per cento in più rispetto all’anno precedente. Il top, per chi se lo può permettere, è accedere a Harvard. Qui, sotto falso nome, vengono educati anche i figli dei più alti dirigenti della Repubblica popolare. Tra di loro anche la figlia del presidente Xi Jinping.
di Cecilia Attanasio Ghezzi