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Egitto, la repressione dei militari e gli ‘eroi’ della primavera araba già dimenticati

Egitto, in marcia per ricordare manifestante uccisaLe condanne all’ergastolo comminate a duecentotrenta protagonisti laici e di sinistra della sollevazione del 2011 segnano un punto di svolta importante nella politica repressiva dello Stato in Egitto. Il brutale clima intimidatorio e di violenza, che si è scatenato dal luglio 2013, non aveva come unico obiettivo la liquidazione politica (e anche fisica si può dire, dato l’alto numero di morti, feriti e di gente finita in carcere) dei Fratelli Musulmani, come spesso la vulgata mediatica ha fatto credere. Lo scontro, insomma, non era soltanto tra i militari e i Fratelli. Al contrario, il progetto di media scadenza del governo dei militari era la restaurazione dell’ancien regime, e ciò era abbastanza evidente, sin dall’inizio. Ma ora la prova schiacciante l’abbiamo avuta e resta poco da discutere sul punto: la recente assoluzione di Mubarak e la liberazione dei suoi figli, per non menzionare l’assoluzione di altri alti funzionari ed ex-ministri del governo di Mubarak,  ha portato ad una riemersione dell’apparato del NDP (National Democratic Party, ovvero il partito di Mubarak).

I fattori che hanno consentito l’escalation della repressione statale in Egitto sono numerosi. In primo luogo, lo sbandamento delle forze laiche e di sinistra, ben sintetizzato nell’endorsement del leader Hamdeen Sabahi al generale al-Sisi, ma anche da parte dei sindacati, compresi quelli indipendenti. Allo stesso tempo bisogna anche tenere conto di un certo bisogno di stabilità che ha prevalso per un periodo nei movimenti e nei partiti di sinistra, che restano comunque formazioni politiche deboli, con scarso radicamento territoriale e particolarmente frammentate (il che non dovrebbe sorprendere più di tanto, visto che si tratta di un paese uscito dalla dittatura nel 2011). La loro debolezza si è del resto notata in questi ultimi due anni, anche a causa della incapacità di riprendere, almeno in parte, le piazze delle più grandi città.

I tentativi, poi, del governo dei militari di dare un po’ di fiato all’occupazione, con le grandi opere, tipo la costruzione del nuovo canale di Suez, hanno portato molte forze politiche a sottovalutare o a chiudere un occhio sull’aumento della violenza e della repressione di Stato.

A questi elementi occorre aggiungere la drammatica situazione nel Sinai, che meriterebbe più di un post per essere adeguatamente descritta ed analizzata. La persistente infiltrazione jihadista ha causato negli ultimi mesi decine di morti e feriti nel Sinai, in particolare tra le forze armate e di polizia. La risposta governativa è stata massiccia: con un intervento militare pesante, con l’imposizione del coprifuoco in una vastissima zona del Sinai (motivo che – secondo molti – ha portato l’intera regione verso la recessione), con il caos mediatico, realizzato sia attraverso la non rivelazione del numero reale delle vittime sia attraverso l’attribuzione esplicita ed implicita delle azioni terroristiche ai vecchi nemici, ovvero ai Fratelli Musulmani.

Si tace, o meglio non si parla ad alta voce delle infiltrazioni dell’ISIS o di altre organizzazioni terroristiche nel Sinai, i cui leader non sembrano, al momento, avere bisogno del supporto dei Fratelli per portare avanti i loro “affari” e le loro strategie di terrore (come ampiamente dimostrato in Siria e in Iraq). Ma l’estensione della paranoia terroristica in tutto il territorio del paese (fatto inevitabile se si attribuisce la colpa degli attentati ai Fratelli) è evidentemente utile in questo momento a chi governa, perché consente l’applicazione su larga scala di leggi liberticide e, di conseguenza, il totale “ripristino dell’ordine”, cioè del vecchio ordine.

Alla fine dei conti, comunque, il “ripristino dell’ordine”, dal luglio 2013 ad oggi, ha creato di fatto i presupposti di un permanere all’opposizione degli islamici, mettendo nel contempo in un angolo stretto le forze laiche e rivoluzionarie, che ora vengono anche brutalmente e per lungo tempo incarcerate. I duecentotrenta ergastoli sono, in questo senso, un evidente tentativo di eliminazione definitiva dalla scena politica delle forze più attive e impegnate nelle sollevazioni del 2011.

Eppure…i controrivoluzionari, di ogni rango e colore, farebbero male, molto male a stappare lo champagne. Il movimento dei lavoratori in Egitto è rimasto in piedi, nonostante anche su di loro si sia abbattuta, con forza, la repressione governativa. Diversi sono stati infatti gli scioperi nella solita Mahalla al Kubra, ma anche a Helwan, per quanto le loro rivendicazioni in questo periodo siano rimaste prevalentemente di tipo economico. Con i lavoratori egiziani sono rimasti in piedi anche tutti i problemi sociali, politici ed economici, ovvero tutti i motivi che spinsero, nel 2011, milioni di egiziani a protestare e a cacciare Mubarak e soci. La repressione e la progressiva cancellazione delle libertà sono sotto gli occhi di tutto il mondo, così come sono evidenti le conseguenze della crisi economica, della disoccupazione galoppante e delle disuguaglianze crescenti.

In piedi e sveglia è rimasta però anche la memoria delle diciotto giornate rivoluzionarie del 2011 tra i giovani egiziani. Sì, parlo di quei “giovani” di cui ora non frega più niente a nessuno in occidente, dopo averli naturalmente osannati come “eroi della democrazia” solo quattro anni fa.