Cinema

Film in uscita al cinema, cosa vedere (e non) questo fine settimana

Birdman di Alejandro Gonzalez Inarritu, Il nome del figlio di Francesca Archibugi e L'Italiano medio di Marcello Macchia: anticipazioni e recensioni

Birdman – Usa 2015, dur. 119, produzione Fox – regia Alejandro Gonzalez Inarritu – con Michael Keaton, Edward Norton
Un unico (fasullo) piano sequenza per quasi due ore. Un andirivieni frenetico tra i cunicoli di un teatro newyorchese ad inseguire quel Keaton/Riggan Thomson stanco interprete di un supereroe da box office, ora alle prese con la sfida anticommerciale di un testo di Carver portato sulle assi del palcoscenico. Sfilano figlie, amanti, amici e nemici e Riggan lievita, distrugge oggetti, corre nudo a Times Square, cade, muore, resuscita per farsi amare, o forse semplicemente apprezzare dal mondo. Al bando le interpretazioni psicanalitiche (che ci sono), Birdman è prima di tutto la formalizzazione di un’idea totalizzante di cinema che trascende disumanamente il film. Virtuoso spettacolo per gli occhi del cinefilo, ottimo prodotto per cercatori di storielle eloquenti, eccellente dispensatore di certezze drammaturgiche: ovunque lo rivolti il film fa centro. Anche se solo lo si ascoltasse seguendo l’assolo di batteria di Antonio Sanchez che innerva e orienta il senso dell’opera fin prima dei titoli di testa e apparendo diegeticamente in qualche angolo del teatro dentro al film. Capolavoro.
5/5
Il nome del figlio – Ita 2014, dur. 96, produzione Lucky Red-Motorino amaranto – regia di Francesca Archibugi – con Alessandro Gassman, Micaela Ramazzotti
Là il figlio doveva chiamarsi Adolf, qui Benito. Là la casa borghese parigina, qui l’attico/terrazzo romano da élite progressista. Là una coppia elegante alla Sarkozy/Bruni, qui un duo fascistello da borgata molto volemose bene. Qualche minuscola variazione di facciata provinciale per italianizzare Nel nome del figlio: pièce teatrale poi commedia cinematografica tra le più viste in Francia, racconto su un gruppo familiare (con cena) che va in pezzi partendo dallo scherzo a sfondo politico sul nome da dare all’infante che verrà. Mezz’ora di depistaggio sulle apparenti secche da commedia romana sinistra vs. destra, poi virata drastica e passiva sul film originale che oscillando su una categorizzazione tra snob e pop, tra superficialità e specificità culturale, si rende metaforicamente universale. Dalle parti della Archibugi e dello sceneggiatore Francesco Piccolo invece tira aria di remake pedissequo con in più un carsico flashback per andare a pescare chissà ché dallo scatolone dell’infanzia dei protagonisti, e l’aggiunta di panoramiche a schiaffo che nemmeno Godard. Una seconda parte che è comunque commedia brillante e piacevole, dove la corrosione intimista di rancori e segreti esplode nella confessione ad alta voce tra i sodali del piccolo gruppo. Anche se alla fine la farina è del sacco dei francesi Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte.
2/5
Italiano Medio – Ita 2014, dur. 90, produzione Medusa – regia di Marcello Macchia. Con Marcello Macchia, Luigi Luciano
L’aberrante e programmatica volgarità con cui Italiano Medio è stato scritto, diretto e interpretato è l’unico dato omogeneo e rilevabile nell’analisi dell’ennesima operazione commerciale dalla tv al cinema in cui un simpatico amico da bar s’inventa puzzette, imitazioni dialettali, e ci devasta l’udito con elementari giochi di parole. Maccio Capatonda è un mito sgangherato di questo secolo buio, dove dissacrazione, differenziazione, opposizione del proprio inarrestabile umorismo sono parti integranti del discorso che si vuole criticare. Maccio con quel Giulio Verme, prima eco-vegano-ambientalista, poi grazie alla pastiglietta dell’amico stupido che gli riduce le capacità cognitive del cervello (la celebre battuta: “scopare!”) improvviso buzzurro discotecaro e cocainomane, non parla di nessun “noi” e di nessun “nostro” mondo da italiani medi; l’italiano medio è lui con il suo cinema al di sotto della cintola fatto di riprese amatoriali e di parrucche incollate con lo sputo. A confronto Zalone e Nunziante sono davvero l’incarnazione del mito di Deleuze.
1/5