No, l’Italia non è un Paese per donne. Lo dicono i dati sulla partecipazione alla vita politica istituzionale: 23esimo posto sui 27 Stati dell’Ue, 69esimo su 142 a livello mondiale. Una fotografia scattata dal dossier messo a punto dal Servizio studi della Camera dei deputati, che ilfattoquotidiano.it è in grado di anticipare, e che ha raccolto ed elaborato i principali indicatori internazionali disponibili sul tema.
Italia fanalino di coda
Il primo Rapporto sull’indice dell’uguaglianza di genere elaborato dall’Istituto europeo per l’uguaglianza, agenzia autonoma dell’Unione europea, ha preso in considerazione sei diversi settori di analisi: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute. Attribuendo dei punteggi in base ad un indice di valore compreso tra 1 (assoluta disparità di genere) e 100 (raggiungimento della piena eguaglianza). In Europa, dove la media è 54, si va da un minimo di 35,3 della Romania, fanalino di coda dell’Ue, ad un massimo di 74,3 della Svezia. “Particolarmente negativa è la posizione dell’Italia”, che con un indice di 40,9 (oltre 13 punti sotto la media, ndr) si attesta al quartultimo posto della graduatoria (23esimo su 27) degli Stati membri, a pari merito con la Slovacchia e sopra solo a Grecia, Bulgaria e Romania. Una situazione che peggiora se si analizza la sfera del “potere decisionale sia politico che economico”: la performance dell’Italia sprofonda a 18,6, “terzultimo posto tra i Paesi Ue (la media è 38), sopra solo a Lussemburgo e Cipro”. A livello mondiale, invece, secondo l’analisi annuale del World economic forum sul Global Gender Gap, l’Italia occupa il 69esimo posto su 142 Paesi, guadagnando due punti rispetto al 2013 grazie all’aumento del numero di donne in Parlamento (dal 22% nel 2012 al 31% dell’anno successivo). A proposito di Parlamento, anche in quello Europeo la crescita è stata significativa: con le ultime elezioni a Bruxelles sono sbarcate 29 eurodeputate italiane su un totale di 73 eletti. Si è passati così dal 15% di presenza femminile delle prime cinque legislatura al 39,7% dell’attuale.
La carica rosa
A fare da contraltare c’è però il fatto che, fino ad ora, nessuna donna è mai stata eletta alla presidenza della Repubblica, nominata a capo del governo o alla guida del Senato. Anche a Montecitorio le cose non vanno meglio: solo Nilde Iotti (VIII, IX e X Legislatura), Irene Pivetti (XII) e Laura Boldrini, attualmente in carica, hanno finora presieduto l’Aula. E che dire delle commissioni parlamentari? Oggi, delle 14 permanenti alla Camera, solo una (Giustizia) vede a capo una donna, la dem Donatella Ferranti. Cifre pressoché simili a quelle che si registrano a Palazzo Madama, dove numericamente le commissioni sono le stesse e le donne alla guida solo 2: Anna Finocchiaro (Affari costituzionali) ed Emilia Grazia De Biasi (Igiene e sanità). Capitolo governo: le dimissioni di Federica Mogherini e Maria Carmela Lanzetta hanno “squilibrato” la composizione paritaria garantita fino a qualche mese fa, ponendo comunque l’Italia, con il suo 40%, al di sopra della media europea (27%). Meno incisiva risulta invece la presenza femminile nelle posizioni di sottosegretario (22,87%, 10 su un totale di 44).
Consulta “spietata”
Organi da sempre “ostili” alle donne sono invece la Corte Costituzionale e le Regioni. Nella storia della Consulta sono state solo 5 quelle che ne hanno fatto parte: Fernanda Contri, giudice dal 1996 al 2005, Maria Rita Saulle (2005-2011) più Marta Cartabia, Silvana Sciarra e Daria De Petris, nominate fra il 2011 e il 2014. Nelle assemblee regionali, invece, la media italiana (15,8%) è di gran lunga al di sotto di quelle europea, pari al 32%. Al momento solo due donne ricoprono la carica di presidente della Regione, Umbria e Friuli Venezia Giulia. E anche le donne sindaco sono solo il 13,4%: 1.050 su 7.823. Rilievo minore ha la presenza delle donne a capo dei partiti. Nel nostro Paese nessuna delle principali forze in campo è guidato da una donna (Giorgia Meloni è leader di Fratelli d’Italia, che non è certo uno dei partiti che fa registrare percentuali da podio, ndr), un dato che comunque segue il trend europeo (un modesto 13%). Nelle 9 autorità amministrative indipendenti, infine, solo 12 su un totale di 42 componenti sono donne (28,6%). E nessuna alla guida. Casi limite sono quelli dell’Agcom, l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni, dove nessuno dei 5 commissari è di sesso femminile, e di quella garante per la privacy, composta da una maggioranza femminile (3 su 4).
Ritorno in quota
Come se ne esce? Dopo aver sviluppato l’impietosa fotografia delle “quote rosa” nelle istituzioni, il dossier del Centro studi di Montecitorio analizza i possibili rimedi. “Per superare questa situazione e garantire l’accesso delle donne alle assemblee parlamentari, lo strumento più diffuso è l’introduzione delle quote di genere nei sistemi elettorali”. Non è un caso che in cima alla graduatoria, insieme ai Paesi nordici, ci sono due paesi con caratteristiche sociali diverse: il Belgio e la Spagna, con un 36-40% di presenza femminile. In entrambi i paesi, che votano con un sistema proporzionale con liste bloccate o semibloccate, sono state introdotte misure legislative per garantire la presenza di genere nelle liste. In Belgio, in particolare, negli anni Novanta la percentuale di donne nelle diverse assemblee elettive era ferma al 5-10%. Quando, nel 1994, è stata approvata la prima legge per la parità fra uomini e donne con l’introduzione delle quote, poi rafforzata nel 2002, si è arrivati al 35% nel 1999, al 37% nel 2004 e a circa il 40% nel 2010.
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