Non ho le competenze per poter definire in modo scientifico (nel senso delle scienze politiche) cosa sia la democrazia: diciamo che io, come la maggior parte di voi, la democrazia la vivo, o la subisco, ma non la studio. Tuttavia sono ragionevolmente certo del fatto che nessuno scienziato politico contesterebbe, almeno non apertamente, l’idea che un presupposto della democrazia sia la corretta informazione dei cittadini, del demos. Se il demos deve governare, è quanto meno opportuno che lo faccia con una minima cognizione di causa, e questo tanto più quanto più si invoca la democrazia diretta.
Mi sono reso conto che per motivi imperscrutabili questo principio viene messo in discussione da molti commentatori di questo blog, i quali non hanno colto la gravità estrema dell’operazione di scorretta informazione, casualmente in senso pro-Troika, denunciata dai miei due ultimi interventi. Fa evidentemente parte della democrazia anche il desiderare di vivere da servi, e lo schernire chi come me ha altre ambizioni: sono opinioni, e nessuno contesta il diritto di esprimerle!
La mia principale obiezione al progetto europeo verte proprio su questo aspetto politico.
Il dibattito in ambito economico, infatti, nonostante le opinioni di alcuni colleghi disinformati, collusi, o poco scrupolosi, è chiuso da tempo, perché non è mai stato aperto: non c’è un economista serio, di statura internazionale, che abbia mai visto nell’euro sostanziali opportunità per i Paesi partecipanti. Invito i miei adorati trollonzi, fonte inesauribile di ilarità, a citare qua sotto quelli che eventualmente trovassero (citare significa indicare autore, anno di pubblicazione, titolo dell’articolo, nome della rivista scientifica, numero del fascicolo, e numero di pagina…). Il percorso di integrazione europea ha un significato politico, non economico, e purtroppo in esso è evidente e dichiarato il tentativo di allontanare dai singoli demos europei, dalle singole polis, scelte politiche cruciali, per delegarle a una istanza sovranazionale necessariamente lontana dai cittadini. Nella costruzione europea l’economia ha un ruolo strumentale: è lo strumento di pressione usato per perseguire scopi politici privi di una base di consenso democratico. Ripeto: lo scopo del progetto è evidente e dichiarato, e quindi chi si schiera e si è schierato a sua difesa non ha alcuna scusa: è oggettivamente animato da uno spirito antidemocratico (anche se è un padre nobile della sinistra, per inciso).
Punto.
Non ci sono complotti.
Andate, vi prego, a leggere Mario Monti nella sua “Intervista sull’Italia in Europa” (1998). A Federico Rampini che gli chiede “Perché la Commissione europea ha accettato di diventare il capro espiatorio su cui scaricare l’impopolarità dei sacrifici?”, Monti risponde “Perché, tutto sommato, alle istituzioni europee interessava che i Paesi facessero politiche di risanamento. E hanno accettato l’onere dell’impopolarità essendo più lontane, più al riparo, dal processo elettorale. Solo che questo un po’ per volta ha reso grigia e poi nera l’immagine dell’Europa presso i cittadini”.
Ora, qui ci sono due riflessioni da fare.
La prima riguarda il merito. Uno potrebbe anche dire: “Be’, però è vero, dobbiamo fare le “riforme”, quindi, in fondo, che male c’è?”. Questo è quanto certamente vorrebbero che pensaste i giornalisti che taroccano i numeri per indurvi a credere che la Troika sia il male minore. Le “riforme” sono una parola che si porta molto, un capospalla di qualsiasi guardaroba politico, tanto che alla fine si tende a darne per scontato il significato, un po’ come è scontato che ognuno di noi abbia nell’armadio un completo grigio o blu. Ma le famose riforme, come stiamo capendo a nostre spese, si riducono a provvedimenti per rendere più “flessibile” e quindi meno costoso il lavoro, il che produce due effetti perversi, uno dal lato dell’offerta, e uno dal lato della domanda. Dal lato dell’offerta, abbattendo il costo del lavoro le “riforme” incentivano processi produttivi a alta intensità di lavoro (cioè a minore intensità di capitale) e quindi deprimono la produttività: ci portano insomma verso il Bangladesh, non verso la Germania. Il rallentamento della produttività in Italia è collegato chiaramente a una alterazione del rapporto capitale lavoro, come vedete in questo grafico:
tratto da questo lavoro. Il rapporto capitale/lavoro (k/n) e la produttività media del lavoro (y/n) smettono di crescere più o meno in sincrono quando inizia la stagione delle riforme (dal 1997, col pacchetto Treu). Lo dice anche Robert Gordon nei prestigiosissimi Nber Working Paper: “We find that by reducing employment protection legislation… countries cause productivity growth to decline” (a pag. 29), ovvero: “riducendo le norme a protezione dei lavoratori i paesi causano un declino della crescita della produttività”. Dal lato della domanda, comprimendo il reddito distribuito ai lavoratori, le “riforme” distruggono il mercato interno. Il singolo imprenditore è molto contento di pagare di meno i suoi operai, fino a che non capisce che siccome anche tutti i suoi colleghi imprenditori si stanno regolando così, nessuno ha più i soldi per comprare i suoi prodotti (i dipendenti nella vita sono anche consumatori). Ma a quel punto è troppo tardi…
La seconda riflessione riguarda il metodo. Se anche le “riforme” non fossero, come sono, dannose per la produttività, sarebbe comunque inconcepibile che un uomo politico esplicitamente dicesse che bisogna realizzarle allontanando questa decisione dal processo elettorale. Notate che a questo politico abbiamo fatto governare l’Italia coi bei risultati visti (e siccome la storia si ripete come farsa, adesso abbiamo un suo ministro che si propone di salvarci dai danni che ha cooperato a fare!).
Il vero deficit dei Paesi europei non è né quello pubblico (che con la crisi non c’entra nulla), né quello estero (che con la crisi c’entra, ma solo sul piano economico): il vero, insanabile, deficit è quello democratico. L’europeista doc, se non è del tutto un fesso, lo ammetterà, e vi farà più o meno questo discorso: “Be’, sì, adesso l’Europa è antidemocratica, ma ora ci pensiamo noi: portiamo la democrazia in Europa, rafforziamo il Parlamento europeo, e tutto andrà bene”.
Come evidenziano due giovani studiosi, Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli, questa soluzione è altrettanto demagogica e antidemocratica. Il rafforzamento delle istituzioni europee in realtà indebolirebbe il controllo democratico sulle decisioni, per una serie di motivi più o meno ovvi, che vanno dal fatto che una politica “sovranazionale” se la può permettere solo chi parla una lingua “sovranazionale” (le barriere linguistiche impedirebbero agli strati meno protetti della popolazione di avere voce in capitolo), al fatto che le istituzioni sovranazionali sono particolarmente soggette al rischio di cattura da parte di interessi oligarchici (Andrea Baranes fa una bella lista di commissari europei “casualmente” provenienti da, o destinati ai, consigli di amministrazione di grosse multinazionali: vi ricordo che i commissari non li eleggete voi, ma in pratica fanno le leggi europee e le applicano – un aspetto del disegno europeo che ai più sfugge…).
Sintesi: chi vuole portare la democrazia in Europa, sostanzialmente vuole toglierla da casa vostra. Io, quelli che la vedono così, li chiamo, un po’ sbrigativamente, fascisti. Qualcuno si offende, ma io, abbassandomi al loro livello, me ne frego!
Del Savio e Mameli fanno anche delle proposte concrete per realizzare un’integrazione europea realmente democratica, che preveda un rafforzamento del controllo popolare, ad esempio attraverso un maggior ricorso alla democrazia diretta.
E qui si torna a capo: ha senso chiedere più democrazia diretta in un sistema nel quale di fatto vige la libertà di disinformare? Questo dibattito, in Italia, è già stato svolto, in particolare con riferimento al famoso “referendum sull’euro” proposto dal M5S. Un referendum che non si può fare, che, nella mia modesta opinione, era solo una squallida mossa tattica di Grillo (peraltro, ormai accantonata), ecc. Tutte cose che sappiamo (tutti, tranne i giornalisti poco scrupolosi che mi hanno additato come grillino: vedi alla voce “libertà di disinformazione”). Quando facevamo presente l’assurdità di ricorrere alla democrazia diretta su un tema sul quale la disinformazione è così pervasiva, ci veniva detto: “Be’, però questa è un’occasione per informare i cittadini!”
Ora, a me piace vedere il buono nelle persone (per esempio, nonostante il dr. Giannini non abbia fatto nulla per rettificare i dati errati, sono convinto che il suo errore non sia stato intenzionale…). Allora, facciamo così: mettiamo che il M5S sia realmente intenzionato a informare i cittadini. Casualmente un suo parlamentare, l’On. Roberto Fico, presiede la “Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi”. Gli ho inviato le due raccomandate che avete visto nei post precedenti, convinto di fargli un regalo: quale occasione migliore, per un parlamentare realmente interessato alla corretta informazione, di dare una dimostrazione concreta di questo interesse richiedendo una rettifica di dati errati? Basta poco, che ce vò…
Aspettiamo fiduciosi…