L’ultima è stata Dalila, a Kobane. Curda. Una di quelle vestite come te, la stessa età, gli stessi jeans stretti alla caviglia, il giubbotto di pelle, i piercing, lo zaino North Face identico al tuo, che in auto, tutte insieme, era un sabato sera, sembrava andassimo a ballare e invece andavamo al fronte. Ma cosa provi, cosa pensi, le ho chiesto, quando spari a un uomo? “Che non devo muovermi. Altrimenti non lo colpisco”. E ha continuato a spalmarsi la Nivea sulle mani.
Perché sono tutti così, i cecchini. Tutti uguali. Quella che in un bombardamento, ad Aleppo, aveva perso i due figli, in senso letterale: polverizzati, e che per reazione, si era unita all’Esercito Libero, e ora non si chiamava più Maryam, ma Guevara – trucco impeccabile, velo, e un filo di tacco. O Iyad, nella città vecchia, quello che gli erano morti tutti. Il padre, il fratello, un altro fratello, tutti, la madre, e qualsiasi domanda, aveva la stessa risposta, ti tirava fuori una foto: il cadavere di sua figlia. O quello che aveva ucciso il suo migliore amico. Ad Azaz. Quello che non telefonava ai suoi da mesi, e diceva: “Credono che sia morto, nel senso: che sia morto del tutto”. E del suo ruolo diceva: è il ruolo più richiesto, e meglio pagato, perché è il ruolo più difficile. Ma non perché devi essere preciso, diceva. No. Perché vedi la tua vittima.
E quindi sono tutti così, i cecchini. Come l’iracheno che un aereo americano gli aveva sterminato la famiglia, e lui aveva tre mesi, ed era cresciuto in moschea, come i gatti randagi, diceva, un po’ di riso una volta da uno una volta da un altro, e quando centrava qualcuno, quando ti aspettavi una reazione, lui rimaneva lì, impassibile – perché aspettava chi si precipitava in soccorso: centrava anche lui, un colpo secco, poi si girava, ti diceva: Un tè? Che fa un po’ freddo.
Sono professori di liceo, elettricisti, commercianti, impiegati delle poste. Parcheggiano davanti alla loro postazione, la mattina, divisi in turni di sei ore come andassero in ufficio.
Si sente speciale, il nostro Chris Kyle, protagonista dell’ultimo film di Clint Eastwood. Nella scena finale, quando viene ucciso da un reduce che cercava di aiutare a superare i traumi della guerra, gli tributano funerali con tutti gli onori. E invece è uno uguale a mille altri. Quando tra la polvere dice a un commilitone: C’è il male, qui, l’hai visto? – te lo dicono tutti, al fronte.
Perché la caratteristica dei cecchini, onestamente, è che non vedono niente. Come tutti i soldati, e in ogni guerra, in ogni fronte, ogni suo lato, sono un misto di traumi e rimorsi e adrenalina e senso di missione e giustizia e chiamata divina alla salvezza del mondo, al rimedio dei suoi mali, ma fondamentalmente, come tutti i combattenti, non importa quanto potente e a infrarossi è il mirino che gli costruisci: non vedono niente. Guardate questo Iraq di Clint Eastwood. Guardate quanto è irreale, quanto è finto, come è vuoto di uomini, di donne, di vita, oggi che il 90 percento delle vittime sono civili: e guardate quei pochi iracheni che si aggirano per le strade, soprattutto, guardate come non sono che degli stereotipi, il bene contro il male, la civiltà contro la barbarie, l’arabo che ti invita alla cena di fine Ramadan ed è tutto gentile, tutto generoso, e invece ha un arsenale sotto il tappeto, l’arabo perfido, invece è tutta una trappola, o la madre che affida la granata al figlio, la madre degenere che trasforma un bambino in arma – e perché servono secoli di civiltà, è vero, secoli di Shakespeare e Dante e premi Nobel per assassinarne 500mila senza una goccia di sangue, come Madeleine Albright, quando dei 500mila bambini iracheni morti di fame e malattie, effetto delle sanzioni contro Saddam, disse: Sono un prezzo da pagare.
Perché in guerra quelli in divisa, poi, quelli con l’elmetto, sono solo i più visibili. Ma non sono gli unici a combattere.
E tutti, naturalmente, sono al fronte per proteggerti. Tutti si sentono cani da pastore, per citare la metafora di apertura del film, con il padre che insegna a Chris e al fratello che il mondo si divide in pecore, lupi, e appunto, cani da pastore, che difendono i deboli – i paladini del mondo migliore. Te lo dicono tutti, al fronte. “Sono qui per te“.
Perché un sopravvissuto la racconterebbe così, la guerra: Stava per uccidermi per autodifesa, ho dovuto ucciderlo per autodifesa.
Pensavi fosse un mirino, Chris. Era uno specchio.