Nato 27 anni fa a Ceppo Morelli, sotto la parete più imponente delle Alpi, è diventato campione del mondo e figura di riferimento per il movimento italiano. Il suo appello per la sicurezza: "Per quanto adoriate questo sport dovete avere il coraggio di togliere le pelli e girare gli sci a valle"
“Sono cresciuto sotto la parete più imponente delle Alpi, la Est del Rosa: ho avuto tutti gli incentivi per imparare a sciare”. Da lì a diventare il più forte del pianeta nella propria disciplina passa qualche milione di dettagli. Damiano Lenzi li ha messi al loro posto uno dopo l’altro con straordinaria lucidità e sacrificio, fino alla vittoria della Coppa del Mondo di sci alpinismo. Damiano è nato 27 anni fa a Ceppo Morelli, piccolo comune della Valle Anzasca. Mentre era nella culla il padre, ex agonista e maestro di fondo, già laminava gli sci. Anche il ragazzo pareva destinato agli anelli, ma il richiamo delle vette fu irresistibile.
É professionista dal 2009, quando vinse il concorso per il centro sportivo dell’esercito. Da quel giorno non si è mai fermato: le prime medaglie nel 2010 e la cordata vincente nel Mezzalama due anni fa, preludio di un 2014 irripetibile. Lo scorso anno Lenzi si è imposto nelle più importanti classiche, dal Patrouille des Glaciers al Tour du Rutor, e ha chiuso la stagione con il trionfo nella classifica generale. Negli sport di endurance, a condizioni normali, si può rimanere ai massimi livelli fino ai 35 anni e Lenzi ha ancora grandi obiettivi da scalare.
L’impegno più immediato è la difesa del titolo da una concorrenza feroce. A metà gennaio si è dovuto accontentare di un quinto posto ad Andorra: da quelle parti è di casa l’amico e rivale Kilian Jornet Burgada, uno che in mezza giornata sale e scende i 7mila metri dell’Aconcagua argentina. “Il livello è alto, basta un piccolo errore per compromettere la performance. Quest’anno la sfortuna pare dalla mia, ma è ancora lunga e ho fiducia” dice di ritorno dai Pirenei. Lo sci alpinismo, in Italia come altrove, conquista ogni inverno nuovi adepti. Ogni fine settimana montagne più o meno accessibili assistono alle processioni di centinaia di appassionati che, dopo aver sudato anche la giacca a vento, si godono il fuori pista.
“La montagna ci accomuna, il cronometro ci separa – spiega Lenzi – L’alpinista della domenica ha il tempo di godersi il panorama, l’atleta ha molta più fretta. Di norma una gara prevede tre salite e altrettante discese, con un paio di tratti a piedi. Lungo il percorso, attrezzato nei giorni precedenti, ci sono creste e canaloni. Spesso le condizioni arrivano al limite, con temperature che raggiungono i -25”. Per alzare le braccia al traguardo bisogna salire veloce e sciare bene, senza sottovalutare i cambi di assetto. Funziona come il pit stop: prima si rimuovono le pelli di foca applicate sotto gli sci e prima si può affrontare il pendio. “Il parallelo con la Formula Uno non è fuori luogo, basti pensare a quanti Gran Premi sono persi per colpa di un cambio gestito male. Ogni gara ha una storia a sé: talvolta il percorso è massacrante e contano i tempi, in altri casi c’è una discesa molto tecnica che fa selezione. Bisogna essere completi e avere condizione, perché quando le gambe non reggono più è la fine”.
Crolli sono frequenti al Pierra Menta, il Tour de France dello sci alpinismo. “La competizione più dura, la soddisfazione più grande” dice Lenzi, che ha vinto l’ultima edizione. Difficile dare torto a uno che ha fatto su e giù attorno al Monte Bianco per quattro giorni, collezionando 100 chilometri di percorrenza e oltre 10 di dislivello. Simili risultati si ottengono grazie a 900 ore di allenamento all’anno, tre al giorno con seduta singola o doppia. “Quando la neve si scioglie non sono affatto triste perché amo il caldo – spiega Damiano Lenzi – In estate mi piace pedalare, faccio 10mila chilometri con la bici da strada e 2 o 3mila con la mountain bike. In autunno mi dedico a corse in montagna o skiroll. Ho un rapporto di amore e odio con la fatica: di per sé non la apprezzo, ma quel che ne deriva mi rende felice. Al contrario provo sconforto quando sento di avere dato tanto, ma nell’equazione qualcosa non torna”.
Ultimo capitolo: la paura. “Il pericolo è dappertutto, in montagna più che altrove, e io sono abbastanza fifone. Le gare sono sicure, ma quando mi alleno affronto l’ambiente come tutti quanti. Voglio fare un appello perché ogni domenica c’è una disgrazia: per quanto amiate questo sport dovete avere il coraggio di togliere le pelli e girare gli sci a valle. Quando vedete qualcosa che non va cambiate strada oppure tornate a casa. La montagna non scappa – conclude – se non è destino questa settimana, la prossima sarà quella buona”.